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Carta di Laura Canali]
I jihadisti egiziani di Ansar Bayt al-Maqdis avevano un’agenda prettamente locale. Il loro giuramento di fedeltà ad al-Baghdadi costringe il Cairo a riflettere sugli esiti non incoraggianti della sua guerra al terrorismo. Come rimediare prima che sia troppo tardi.
Gli attacchi contro l’aeroporto di al-Jura (9 giugno) e il tempio di Karnak, vicino Luxor (10 giugno), hanno dimostrato come i temi della sicurezza e del terrorismo siano ancora una delle maggiori criticità per l’Egitto “post-primavera araba”.
Una situazione tanto più preoccupante ora che è iniziato il mese di Ramadan (17 giugno-17 luglio), che secondo le autorità cairote potrebbe diventare un periodo, anche mediatico, perfetto per il rilancio di una strategia stragista da parte dei gruppi salafiti radicali/jihadisti attivi nel paese.
La proliferazione di questi attori non statuali in Egitto e nei maggiori teatri di crisi del vicinato (Libia eStriscia di Gaza in primis) sta ponendo dunque un serio problema alla sicurezza del Cairo e alla stabilità dell’area del Vicino Oriente. In uno scenario di crisi regionale così ampio si inseriscono gli attacchi condotti dal più letale dei gruppi jihadisti egiziani, Ansar Bayt al-Maqdis (Abm), un’organizzazione sorta nel gennaio 2011 con rivendicazioni inizialmente localiste che si richiamava al salafismo radicale e all’ideologia qaedista prima di stringere ufficialmente un’alleanza strategica (bayah) con il sedicente Stato Islamico (Is) guidato dal califfo Abu Bakr al-Baghdadi.
Da Ansar Bayt al-Maqdis a Wilayat Sinai
L’annuncio ufficiale è giunto il 4 novembre 2014 attraverso Twitter – l’account ora è bloccato – del gruppo egiziano, nel quale si comunicava l’adesione all’Is e si riconosceva in al-Baghdadi «il califfo dei musulmani in Iraq, Siria e di tutti i paesi islamici». Il 10 novembre al-Baghdadi approvava il giuramento di fedeltà pronunciato da Abm, dai libici di Islamic Youth Shura Council a Derna, da Jund al-Khilafah in Algeria – un gruppo scissionista di al-Qaida nel Maghreb Islamico (Aqim) – e da Mujaheddin of Yemen e Mujaheddin of al-Haramayn, due gruppi minori rispettivamente di Yemen e Arabia Saudita, proclamando questi territori wilayat (province) dello Stato islamico.
Parallelamente, Abm annunciava il cambiamento del suo nome in Islamic State’s Wilayat Sinai(Provincia islamica del Sinai, Ws) facendo intendere sia una stretta identificazione ideologica tra le due organizzazioni, sia la “sottomissione” della terra del Sinai all’autorità del califfo, a sua volta rappresentato in loco dal wali (un governatore): Abu Omar al-Masri, leader appunto di Abm.
Il giuramento di fedeltà pronunciato dal Wilayat Sinai rappresenta un successo importante per l’Is. Risponde a un duplice obiettivo: a) il controllo del Sinai permette una variazione di strategie non più dipendenti unicamente dalla direttrice siro-irachena, allargando così il fronte dei combattimenti a più teatri simultanei (come sta avvenendo anche in Libia, in Nigeria e nell’Af-Pak); b) l‘alleanza rappresenta una forte risposta ai raid aerei della coalizione internazionale composta da 40 paesi e guidata dagli Stati Uniti, con l’intento di minare dall’interno la stabilità degli stessi Stati mediorientali attraverso l’affiliazione delle cellule jihadiste presenti sul loro territorio. Parallelamente, per il Wilayat Sinai la collaborazione con lo Stato Islamico garantisce un supporto logistico e militare esterno rilevante nella sua campagna di contro-insorgenza e di guerriglia nei confronti dell’Egitto e di Israele.
A giocare un ruolo decisivo nello spostamento di Ws da al-Qaida allo Stato Islamico hanno influito, inoltre, le importanti capacità finanziarie (secondo alcuni analisti le ricchezze del califfo ammonterebbero a circa 2 miliardi di dollari) e militari (mezzi corazzati, armi e dotazioni varie tecnologicamente avanzate) a disposizione del gruppo siro-iracheno. L’istituzione del Wilayat Sinai ha rappresentato uno spartiacque imprescindibile sia nel consolidamento della rete e del marchio di Is, sia nel rafforzamento del prestigio personale di al-Baghdadi.
Le fratture interne al Wilayat Sinai
L’alleanza tra Ws e Is ha tuttavia evidenziato alcune controversie all’interno della stessa organizzazione egiziana. Secondo una ricostruzione dei fatti realizzata a novembre da David Kirkpatrick sulNew York Times, la bayah ha comportato una difficile coabitazione tra le diverse anime del gruppo jihadista che potrebbe sfociare in ulteriori scissioni in fazioni sempre meno convenzionali e suscettibili di aprire una nuova stagione di insicurezza in Egitto.
Da mesi circolavano notizie secondo le quali il ramo di Ws nell’Egitto continentale – Valle del Nilo, Il Cairo e il suo relativo distretto – continuava a opporsi al giuramento di fedeltà effettuato dalla base nel Sinai, preferendo piuttosto la lealtà ideologica ad Al Qaida. Alla base della dialettica interna al gruppo islamista vi è stata appunto una diversa concezione sulla linea ideologica da seguire: le cellule “egiziane” non hanno accettato la fedeltà al califfato perché sarebbe venuta meno la loro autonomia garantita invece dall’alleanza con Aq.
Sebbene, almeno ufficialmente, non esistano conferme di una frattura insanabile tra i gruppi appartenenti a Ws, numerosi segnali portano verso questa direzione. Il 13 dicembre 2014, infatti, un gruppo autonominatosi Kateebat al-Ribat al-Jihadiyya (Brigate o Battaglione al-Ribat) ha annunciato tramite un forum la fuoriuscita da Ws a causa del “tradimento” di questi ultimi con la missione jihadista. Nel lungo comunicato, il nuovo gruppo non solo non ha riconosciuto la bayah ad al-Baghdadi, definendola “illegale”, ma si è pronunciato a favore della prosecuzione della propria battaglia nel Sinai contro il governo egiziano.
Parallelamente, il giuramento di fedeltà allo Stato Islamico ha provocato una dialettica accesa anche tra gli alleati egiziani di Ws. Ajnad Misr, gruppo attivo nella Valle del Nilo e nella capitale, ha criticato la fedeltà allo shaykh Ibrahim (al-Baghdadi), preferendo l’alleanza con al-Qaida. Pur registrando il solo caso isolato di al-Ribat, esistono molteplici forze centrifughe all’interno di Ws e tra i suoi alleati che se non dovessero rientrare entro un breve periodo potrebbero portare a una scissione in due o più differenti organizzazioni e ridefinire allo stesso tempo lo scacchiere delle alleanze nella penisola e nell’intero quadro jihadista egiziano.
Gli effetti del giuramento al califfo
La bayah tra Ws e Stato Islamico ha comportato dunque due effetti immediati in Sinai.
1) Il cambiamento di status dei combattenti della Penisola – che hanno cessato di essere percepiti come “attori locali” e sono ora considerati dei “foreign agent” – e della tipologia del conflitto in corso nell’area. Conflitto che, seguendo una traiettoria lineare, da un piano puramente localistico (Sinai) si è spostato verso uno internazionalizzato, dato il coinvolgimento più o meno diretto di altri attori (Stati Uniti, Israele, Striscia di Gaza, Libia e paesi del Golfo). A fronte, dunque, di una rinnovata minaccia esterna, le crisi nella Striscia di Gaza e in Libia, sempre più connesse con il terrorismo jihadista endogeno (Sinai, Valle del Nilo e confine libico), rappresentano al pari dell’economia la principale sfida politica e la maggiore minaccia alla sicurezza del Cairo. Ad accrescere il clima di instabilità lungo il confine occidentale egiziano hanno influito diversi fattori, tra cui un possibile effetto spill-over delle violenze libiche/gazawi verso il territorio egiziano, i legami sempre più stretti tra Ws e i gruppi salafiti armati transnazionali come Mohammed Jamal Network, Ansar al-Sharia Libya e Mujahideen Shura Council in the Environs of Jerusalem, nonché il travaso di soggetti fuoriusciti e sempre più radicalizzati della Fratellanza musulmana che troverebbero un rifugio all’interno del confine libico. Il timore egiziano si sostanzia dunque nella possibilità che tutti questi gruppi utilizzino la Cirenaica e la Striscia di Gaza come base logistica per minacciare direttamente la sicurezza dell’Egitto. Si riconducono a questo scenario i raid egiziani di agosto-ottobre 2014 a Tripoli e in Cirenaica e quelli del febbraio 2015 a Derna e a Sirte, o la pressoché permanente chiusura del valico di Rafah e le azioni di distruzione dei tunnel da parte dell’esercito egiziano. Una situazione complessiva che denota dunque un innalzamento della globalità della minaccia dello Stato Islamico e della sua capacità di penetrazione/espansione territoriale.
2) Nonostante l’uccisione di numerosi jihadisti, l’introduzione di nuove e più stringenti misure (come la nuova legge antiterrorismo, l’imposizione dello stato d’emergenza e di un coprifuoco notturno nel Sinai settentrionale, la creazione di un nuovo corpo d’armata unificato che tenga insieme intelligence, militari e polizia, nonché l’evacuazione di oltre un migliaio di famiglie dai territori lungo il confine con la Striscia di Gaza per consentire la realizzazione di una zona cuscinetto) e le campagne di lotta al terrorismo – tre dal 2011 – nel Sinai centro-settentrionale, il Cairo non ha stabilizzato il territorio, né indebolito la struttura di Ws. Le autorità centrali non sono state capaci di interrompere quel vincolo di fedeltà tribale che i jihadisti egiziani hanno instaurato con le popolazioni beduine e locali divenute loro alleate – sebbene negli ultimi mesi si registrino alcuni cambiamenti sostanziali nel rapporto fiduciario biunivoco – provocando una marginalizzazione della società civile locale e allontanando le ipotesi di dialogo informale con queste realtà. Allo stesso tempo, l’incapacità dimostrata dalle autorità nel bloccare non solo gli attentati, ma anche la crescita del loro livello qualitativo, ha alimentato le speculazioni – finora non comprovate – di possibili infiltrazioni jihadiste nei ranghi militari. Infine, la repressione di qualsiasi forma di dissenso politico da parte del regime favorisce la radicalizzazione di soggetti e gruppi dissidenti islamisti che potrebbero ingrossare le fila dei terroristi.
Da zona cuscinetto a terra di nessuno?
L’emergere dello Stato Islamico nel Sinai, la fragile stabilità interna e il deteriorarsi del quadro di sicurezza nell’immediato vicinato il Cairo a ripensare le proprie strategie politiche e securitarie. Questa situazione di incertezza offre un’opportunità: l’Egitto può riconquistare l’influenza perduta nell’area attraverso un cambio di rotta nella strategia di lotta al terrorismo a tutti i livelli (politico, militare e sociale). Ciò potrebbe garantirgli, da un lato, un calo delle tensioni e una minore presa dei jihadisti nelle fasce marginalizzate della società, dall’altro, una maggiore stabilità data da una percezione differente della legittimità e del ruolo dello Stato nella regione.
La mancanza di passi avanti in questo senso potrebbe comportare, nel medio-lungo periodo, pesanti ricadute politiche, strategiche ed economiche. La messa in sicurezza della penisola del Sinai rappresenta dunque una sfida alla stabilità e alla legittimità dello Stato egiziano, così come agli equilibri del Vicino Oriente.