fonte di Micol Sarfatti

La nuova puntata dell’inchiesta rivoluzione urbana è dedicata alla riprogettazione delle città asiatiche. «Devono seguire lo stile di vita locale »

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Foto di Shangai di Davide Bramante

È quasi sera a Pechino quando Gong Dong, architetto di fama internazionale, una carriera divisa tra la Cina, terra natia, e gli Usa, si affaccia su Zoom per la nostra intervista. Lo schermo si inonda improvvisamente di luce, è quella che filtra dai vetri del suo studio. Uno spazio bianco, che tiene insieme ordine e creatività, come mostrano le mensole riempite con modelli, libri e strumenti del mestiere. Domenica 10 ottobre Dong interverrà (in collegamento) alla Biennale Democrazia di Torino, nella lectio racconterà come la Cina sta affrontando i cambiamenti tra vecchio e nuovo, accelerati dalla globalizzazione.

Quanto il suo Paese di origine l’ha influenzata nel lavoro?
«Moltissimo. Potrei dire che le origini sono il sangue della mia opera. L’elemento primigenio, quello che la tiene in vita. Mi viene difficile pensare agli edifici che ho progettato senza scorgerne l’influenza cinese. Quando disegno uso le mani, i sentimenti e l’istinto. Non penso razionalmente alle mie radici, ma poi mi accorgo che arrivano da sole ovunque. Non sono ispirato solo dalla cultura cinese tradizionale, ma anche da quella contemporanea. Attingo al patrimonio storico e alle mutazioni in atto. Forse questa parte è ancora più interessante per me. Il processo di urbanizzazione massiccia del mio Paese è iniziato circa 40 anni fa e ha portato cambiamenti epocali: organizzativi, economici, e psicologici. Un buon architetto deve sapersi interfacciare con le rivoluzioni, la nostra non è una professione statica».

Cos’è l’architettura per lei?
«Molto più di un lavoro. È un modo di vivere e di pensare. È il punto di contatto tra me e l’esterno, lo strumento con cui dialogo con il mondo attraverso lo spazio delle città. La parte che amo di più della mia professione non è quella tecnica, ma quella umana. Gli architetti non devono essere attenti solo alle misure o ai materiali, devono intercettare la complessità, il rapporto tra l’uomo, la natura e la società».

C’è una città o una regione della Cina che trova particolarmente interessante in questo momento?
«Per me interessante non è sinonimo di bello. In Cina abbiamo molti problemi e molte contraddizioni e questi sono gli aspetti che mi incuriosiscono di più. Il mio Paese vive un conflitto costante tra un lato tradizionale, molto poetico, e una contemporaneità caotica, disordinata. Questa dicotomia è la sua vera bellezza, emana una grande energia. Parte di queste contraddizioni è dovuta al fatto che, in un primo momento, il nostro processo di modernizzazione si è concentrato sul copiare il modello occidentale. Poi abbiamo capito che quella non era la via da percorrere: lo stile di vita cinese è diverso, abbiamo sbagliato i riferimenti. Le persone devono abitare in modo confortevole le città perché queste non sono semplicemente spazi da riempire. Oggi in Cina stiamo rivalutando molto la dimensione del quartiere e della provincia».

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L’architetto Gong Dong

In Cina e non solo. La pandemia ha accelerato questo processo anche in Occidente, Europa e Stati Uniti, dove tante persone meditano di lasciare le grandi città, o di non farvi ritorno, appoggiandosi a strumenti come lo smartworking.
«Credo accada anche perché ci siamo sentiti più vulnerabili, non abbiamo più la forza che, in parte a torto, credevamo di avere prima. Il virus ha sollevato dubbi e domande in tutto il mondo a livello pubblico e privato. Ora dobbiamo fare i conti con questa dimensione più incerta e più frammentata».

Cioè?
«Negli ultimi 10 anni la tecnologia ha stravolto e velocizzato le nostre vite. Il lockdown ha reso lo strappo con il vecchio mondo ancora più evidente. Oggi tutto è, in apparenza, più semplice. Si può lavorare da casa o incontrare una persona che sta dall’altra parte del mondo attraverso uno schermo, come stiamo facendo lei ed io. Questo ci ha dato leggerezza, efficienza, in parte sostenibilità e, in tempi pandemici, e sicurezza sociale e sanitaria. Dall’altro lato però rischiamo di perdere il lato “più pesante” della nostra esistenza: il contatto umano, la luce naturale. La sfida dell’architettura oggi è tenere insieme queste due parti e valorizzarne il potenziale. Prima della pandemia “peso” e “leggerezza” erano complementari, oggi sembrano sempre più distanti, quasi in conflitto tra loro».

Quale sarà il ruolo della Cina nella progettazione delle città del futuro? «Come dicevo prima la Cina non deve copiare un modello, ma pensarne uno proprio, che tenga insieme modernità e tradizione. C’è un grande bisogno di nuove infrastrutture sia nelle città che tra le città, ma la vera chiave di sviluppo resta l’attenzione allo stile di vita. Qui c’è un modo di stare al mondo molto preciso. La famiglia è al centro di tutte le relazioni, non esiste la cultura della piazza, gli spazi intermedi tra la vita privata e pubblica sono i quartieri, il vicinato, i giardini pubblici. In molte metropoli questi luoghi sono venuti a mancare, è essenziale recuperarli. Le città non sono solo una planimetria per discussioni politiche o una bella cartolina per i turisti, sono di chi le vive. Questo non va mai dimenticato».

La sostenibilità è uno dei temi del nostro tempo. È possibile conciliare rispetto dell’ambiente e innovazione nell’architettura?
«L’architettura consuma energia, quindi non potrà mai essere totalmente sostenibile, di questo deve esserci consapevolezza. L’umanità ha bisogno di consumare energia, dobbiamo lavorare perché questo accada con minor impatto, ma è un’utopia pensare che si possa vivere senza emissioni. Inoltre non dobbiamo dimenticare la sostenibilità umana, un tema che non è ancora indagato abbastanza e questo, ammetto, mi infastidisce non poco. L’architettura non ha a che fare solo con i numeri, le statistiche, i materiali o i macchinari, ma anche, anzi, soprattutto, con la vita e le emozioni. Un edificio veramente sostenibile deve avere una dimensione spirituale. Pensiamo al Pantheon a Roma: da millenni racconta una parte di Storia del mondo, anche questa è sostenibilità. L’architettura non è una macchina, ma una disciplina che deve avere a cuore la qualità degli spazi e le emozioni generate da questi negli esseri umani. Oggi quando si progetta un edificio si hanno in mente l’efficienza e il risparmio energetico, basterebbe pensare subito bene all’esposizione, al giusto orientamento, alla ventilazioni. Da anni va di moda progettare interi palazzi di vetro per avere luce e trasparenza poi però si spreca elettricità per i sistemi di oscuramento. Che senso ha?».

La luce è una delle componenti a cui dedica più attenzione nei progetti. «Per me è qualcosa di magico, ha implicazioni spirituali e legate alla salute. Ce ne siamo accorti in questo anno e mezzo chiusi in casa. La luce cambia l’atmosfera, scandisce i ritmi della natura. Al buio gli spazi sono statici, sono solo perimetri fisici privi di vita. È la luce ad animarli».

Il tema della 17°Biennale di Architettura di Venezia è How will we live together?, Come vivremo insieme Lei che risposta si è dato?
«Purtroppo non ho ancora visitato la Biennale: a causa del Covid, non è possibile uscire dalla Cina. Il dettaglio interessante è che il tema è stato scelto due anni prima della pandemia, oggi ha acquisito ancora più senso. La risposta è già nella domanda: vivremo insieme, l’uomo non può isolarsi. Prima o poi pagheremo le conseguenze di questo periodo di distanziamento sociale. La grande sfida contemporanea degli architetti, e non solo, è incoraggiare la vita pubblica senza correre rischi per la salute. Non abbiamo ancora trovato il modo perfetto per farlo, ma è su questo che dobbiamo lavorare».