di Beatrice Dondi 16 AGOSTO 2021

La mediocrità che diventa valore. Gli sconosciuti alla ribalta. Il televoto. Con il contenitore ideato da Gianni Boncompagni il piccolo schermo imparò a nutrirsi del nulla. Una lezione che non ha più dimenticato
Dicesi presentimento quella sensazione indefinita di qualcosa che sta per accadere. Qualcuno, a onor del vero, sentì sottopelle quel brivido di catastrofe imminente alla vista del primo cruciverba circondato da duecento gambe seminude. Ma evidentemente non se ne curarono abbastanza. E il disastro si srotolò come un tappeto rosso di un festival di risulta. Era il 9 settembre del 1991 quando la premiata ditta Boncompagni-Ghergo riempì per la prima volta lo studio di “Non è la Rai” di fanciulle poco più che adolescenti, alle quali non veniva richiesto altro che essere fanciulle poco più che adolescenti. Non troppo belle, non troppo appariscenti, non troppo formose. E soprattutto con ben poco da dire. Un po’ come il Mike Bongiorno di Eco, un gruppo «capace di convincere il pubblico, con un esempio vivente e trionfante, del valore della mediocrità».
Intorno a quella piscina, a quel karaoke incessante, ai conduttori fatti fuori in breve tempo, via la Bonaccorti, via Bonolis, via i copioni e largo al non varietà con l’auricolare, tanto quel che conta è l’emozioni basica, felicità, tristezza, frangette, si dava così il via a un laboratorio sperimentale della tv del futuro, senza trascurarne nessun aspetto.
La pubblicità come parte integrante del programma, il prodotto accarezzato, venduto e in quanto tale amato, si condisce con l’assenza scientifica di contenuti, in cui la forma viene lucidata come un gadget, inutile e vistoso, per essere specchio sì, ma anche allodola. Così il vuoto protagonista del palinsesto avanza con sfacciataggine, e la lezione è semplice: se per fare un tavolo ci vuole un albero per fare la tv basta il nulla.
E se oggi siamo assediati da vip sconosciuti, resi eroi dal sacro mondo del reality lo dobbiamo esattamente alla brigata gongolante di Bellissime senza mamma Magnani, a cui non veniva richiesta rigorosamente nessuna abilità, cantanti senza dover cantare, agitatrici di acque dell’inutile entusiasmo, sciolte nelle lacrime per un’unghia spezzata. La fama facile, l’immagine che sovrasta il ripieno, il giudizio del pubblico che diventa l’unico (tele)voto a cui prestare attenzione e soprattuto l’assenza sistematica del talento, ce li ritroviamo tra i piedi con prepotenza, in una roboante identificazione tra punti di vista, di chi guarda e di chi è guardato. Al punto che dopo trent’anni ancora sembra faticoso riuscire a fare spazio per altro. D’altronde «L’Italia è il Paese che amo» avrebbe detto da lì a poco Silvio. E tra lo scendere in campo e lo scendere in studio la differenza, l’abbiamo imparato, è solo nei dettagli. Come il diavoletto sulla spalla di Ambra.