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26.03.2019
Il confine tra Uzbekistan e Kazakistan, attraversato anche dalla ferrovia Transcaspica – Andrea Forlani

Viaggiare nelle ex repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale vuol dire farsi rapire da un sentimento languido che ci riporta al passato. Da quello molto lontano delle carovane e delle città-bazar che sorgevano lungo la via tra Occidente e Oriente, a quello più vicino delle utopie totalitarie. Benvenuti nel “Nostalgistan”

Si può avere nostalgia di qualcosa che non si è vissuto? Oggettivamente no. Non serve girarci intorno, e dire il contrario sarebbe una menzogna. E allora perché Nostalgistan? Perché ad attraversare gli “Stan” dell’Asia Centrale – le cinque ex repubbliche sovietiche i cui nomi gli impallinati di geografia recitano a memoria come i setti nani o i sette Re di Roma, e come i sette nani o i sette re di Roma se ne dimentica sempre uno, a me salta sempre il Turkmenistan – si respira una gran aria di nostalgia. «Nostalgia, nostalgia canaglia» cantavano due che da queste parti vanno ancora di moda.

Bukhara, Uzbekistan. Il complesso di madrasse tra cui spicca il minareto Kalyan

Andrea Forlani

Accampamento di yurte nei pressi del lago Son Kol, intorno ai 3,500 metri di altezza, nel cuore del Kirghizistan

Jacopo Zurlo

Un altro accampamento a Tash Rabat, in Kirghizistan. Si tratta di un antico caravanserraglio in uno dei rami più a Nord della via della Seta, quasi al confine con la Cina

Jacopo Zurlo

Nostalgia profonda, soprattutto di un tempo invero assai lontano, in cui da queste steppe e questi deserti pietrosi transitavano ricchezze e saperi, sete e spezie. Un tempo in cui queste terre dell’Asia così lontane da tutti i mari erano la porzione centrale in quel che fascio di vie che conosciamo come Via della Seta. Un’epoca – grossomodo tra il XI e il XV secolo – in cui fiorivano dalla sabbia città cosmopolite che prosperavano intorno a ricchi bazar e animati caravanserragli, città dove si produceva cultura intorno alle madrasse e alle corte di emiri e condottieri tanto forti nell’arte della guerra quanto – alle volte – illuminati, come il matematico Ulug Bek o suo zio, il terribile Tamerlano. Un’epoca in cui fiorirono città come Khiva e Bukhara, Osh e Merv, con i loro tondi minareti tempestati di maioliche color acqua marina, i palazzi fastosi, le fortezze robuste. Eppure, chi associa mai questi nomi a quell’antica grandezza?

Baku, capitale dell’Azerbaigian. Sullo sfondo le Flame towers, che simbolizzano il fuoco adorato dagli zoroastriano, i cui templi si trovavano tutto intorno alla città

Andrea Forlani

Alcune delle carcasse arrugginite di navi che si trovano sul fondo sabbioso dello scomparso lago d’Aral, a Moniaq, in Uzbekistan

Andrea Forlani

Una chaikana, una delle sale da tè tipiche di tutta l’Asia centrale

Andrea Forlani

L’unico nome per cui tutti quando lo sentono pronunciare tendono l’orecchio, aggrottano finanche un sopracciglio e spendono un vago «ah», è Samarcanda. Ma viene il sospetto che sia più per via della canzone di Vecchioni (o – peggio – per un vago ricordo che sa di riflesso pavloviano legato alla trasmissione di Michele Santoro) che per l’effettiva conoscenza di che cos’è oggi e che cos’è stata Samarcanda, «una di quelle destinazioni che uno si porta in petto fin dall’infanzia» per dirla con Terzani. Città che si colloca ai limiti della geografia, oasi polverosa e verde, separata da grandi e temibili deserti dalle altre città carovaniere che si susseguivano come grani di un rosario nel percorso lungo anni che univa il Mediterraneo con l’impero cinese, il mondo orientale con quello occidentale. Una parola piena e rotonda, S-A-M-A-R-C-A-N-D-A, che per generazioni di viaggiatori ha significato l’essenza stessa dell’altrove e dell’avventura, come Timbuctù o Capo Horn, dove invece oggi – spiace per Vecchioni – c’è ben poco da ridere. Niente sete fruscianti e bazar che ribollono di vita e straboccano di mercanzia, ma una decadenza sontuosa e una bellezza posticcia, costruita o forse – meglio – ricostruita a uso dell’immaginario un tempo orientalistico e oggi turistico, prima dai governanti zaristi e poi sovietici e, in anni recenti, dalla famiglia dell’ex presidente Karimov.

Una delle depressioni che si attraversano tra Aktau e Beyneu, Kazakistan

Andrea Forlani

Il deserto roccioso che contraddistingue il paesaggio nell’altipiano dello Ustyurt, tra Kazakistan e Uzbekistan

Andrea Forlani

Già, i sovietici, l’Unione Sovietica. È anche di questo che cogli una vaga nostalgia quando viaggi in queste terre. Nostalgia che – sia chiaro – spesso sta più negli occhi di chi guarda, che in quelli di chi ci vive. Perché non si tratta tanto di una nostalgia declinata come «vorrei che tornasse l’Urss», che al più la provano gli anziani che, come a ogni latitudine, rimpiangono più che l’altro l’epoca in cui erano giovani e forti e pieni di speranze, che quella in cui erano anche comunisti e sovietici.

La nostalgia che diventa “Nostalgistan” è piuttosto un’atmosfera incisa nelle cose, un’idea di desolata bellezza post-sovietica. Una nostalgia incrostata sugli impianti industriali arrugginiti, impressa nelle strutture bucherellate delle fattorie collettive dove le stalle per gli animali assomigliano ad hangar per aerei, rappresentata sui mosaici di propaganda che perdono tessere, nei concreti e fantasiosi palazzi brutalisti in grigio, sovietico cemento ormai sbrecciato, dipinta sui volti di tante persone che incontri lungo la via, persone che spesso sembrano costretti qui dalle giravolte della vita ma soprattutto della storia. Non è certo nostalgia politica per un’epoca d’oro che d’oro non fu, ma anzi fu repressione, autoritarismo e follia, quanto per un sogno svanito cui non è stato sostituito altro. Nulla di così totalizzante, almeno.

Aktau, Kazakistan. Un Mig sovietico troneggia in uno dei viali che portano al mare

Andrea Forlani

E così viaggiando negli “Stan” – parola di origine persiana che vuol dire semplicemente “paese di” –, gli Stan dei tagiki, dei kirghisi, dei kazaki, degli uzbeki si respira questa polvere un po’ arrugginita che si deposita sulle persone e sulle cose e che a qualcuno si deposita anche dentro. Come certo si deposita anche la bellezza, quella oggettiva, di paesaggi immensi, spesso estremi, spazi di sovrumana grandezza popolati di persone ospitali, ragazze imbronciate e anziani che rimpiangono il passato. Posti dove l’eccentricità non è una moda del momento ma la regola. A ogni modo, si può aver nostalgia di tutto questo e sperare di essere considerati sani di mente? Si può essere affascinati da questa oggettiva desolazione e decadenza? Dipende dai gusti. Si può se si è attratti dalle cose fuori posto, dalle storie senza lieto fine, dal disordine imperante e dall’imprevisto costante. Se si è affascinati da tutto questo, o perlomeno se si è sensibili all’estetica dello sfascio: ecco che allora l’Asia Centrale è un buon luogo dove trovare soddisfazione. Un buon luogo dove provare Nostalgistan.

IL LIBRO

Tino Mantarro, autore di questo articolo, ha da poco pubblicato Nostalgistan. Dal Caspio alla Cina, un viaggio in Asia centrale: un viaggio per scoprire quello che un tempo è stato il cuore del mondo, attraversato dalle orde mongole, conteso da russi e inglesi durante il Grande Gioco ottocentesco, e oggi, grazie agli investimenti cinesi, cuore della nuova Via della Seta. (Ediciclo editore, 192 pagine, 14,5 euro)