
Silvio Lorusso
Alessandro Baricco ha scritto un libro sulla rivoluzione digitale. E già questo è motivo d’irritazione. Non me ne voglia l’autore di The Game (il libro si chiama così), non ce l’ho con lui personalmente – a me I barbari è piaciuto – ma con ciò che rappresenta. Baricco è un autore di mezza età che in fondo non ha nulla da spartire con il digitale, eccetto il fatto che ne usufruisce, come tutti. Non è un grande odiatore della rete come Franzen, non ha partecipato attivamente alla rivoluzione che descrive, non ha fondato una startup, non ha speso – credo – nottate su IRC o MSN, non ha assistito – per dire – al commencement speech di Steve Jobs. Per contro ha passato un po’ di tempo in California e, come ammette candidamente nel libro, paga della gente che gli gestisce i social. È un utente, nemmeno troppo scafato, con un’opinione su computer e telefonini.
Baricco non si limita a raccontare in maniera autoriale (ovvero sommaria, e data l’ambizione del libro non potrebbe essere altrimenti) gli albori della rivoluzione digitale e il suo dispiegarsi ma pretende di impartire una lezione a chi è cresciuto a pane e computer, a chi non è solo un turista del “Game”. Turistico è infatti lo sguardo dell’autore, sia quando si interessa ai pionieri e ai tecnici, sia quando osserva i bambini e gli adolescenti con fare etnografico. È vero che il digitale appartiene in qualche modo a tutti e ognuno ha il diritto di dire la sua, come è vero però che il “Game” (d’ora in poi senza virgolette) è l’habitat naturale dei Millennial e di chi viene dopo di loro. Per questo motivo il libro pare un atto di appropriazione indebita, un saccheggio. Non si tratta solo di età anagrafica, ma di quella che chiamerei distanza profetica. Quando si parla di digitale, di internet, di web, autori più vecchi di Baricco una distanza profetica l’hanno affinata, primo fra tutti Franco Bifo Berardi, il cui ultimo libro è per molti versi un Anti-Game, come spiegherò in seguito.
Baricco si fa in quattro per suonare profetico, catapultando il lettore lontano lontano, raccontando il passato come il presente e il presente come il passato, tracciando mappe ed innalzando catene montuose, inserendo strategicamente paroline chiave digitali come ‘username’ e ‘password’. Ma la distanza profetica non è una questione di stile. Perciò il risultato è ambiguo e un po’ goffo. Siamo lontani dai colpi di genio di un Douglas Coupland, che nei suoi romanzi (Microserfs in particolare) ha saputo immortalare con acume l’essenza della vita online. Un breve passaggio da The Game per capire di cosa sto parlando (il più cringy, lo ammetto):
Webbiamo in continuazione, e questo è il nostro modo di vivere, di produrre senso, di macinare esperienza. (p. 89)
Lasciasse allora ai Millennial il compito di decostruire l’unico fatto storico che possono in qualche misura rivendicare (niente ‘68 o ‘77 per noi), lasciasse ai ragazzini il compito di raccontare cosa vuol dire vivere tra mondo e oltremondo (parole sue). Troppo tardi: il libro è stato scritto e a noi non resta che leggerlo e commentarlo.
Da dove partire? The Game è un libro lungo, troppo lungo rispetto alle idee che contiene. Partiamo allora dalla tesi eponima, ovvero che l’insurrezione digitale (espressione dell’autore, ci torneremo) abbia nel suo DNA un elemento ludico e che quindi discenda dai primi videogiochi. Questa tesi, che è in fondo la principale tesi del libro, è anche il suo più plateale malinteso.
GIOCOSITÀ
Quando vivevamo insieme, mio padre ogni sera mi diceva: «basta giocare al computer, la cena è pronta». Non importava cosa stessi facendo: litigare con la fidanzata, modellare in CAD, progettare un sito, scrivere un saggio per l’università ecc. Per lui stavo giocando: computer = gioco. Lo stesso vale per Baricco, che interpreta il susseguirsi di tecnologie e dispositivi come un progressivo ritorno all’origine, come un’ineluttabile sintesi ludica dei device (con l’arrivo dell’iPhone), del web (con l’avvento dei social media), della politica (con l’affermarsi del MoVimento) e di tutto il resto.
Ma se di rivoluzione ludica si tratta, a che gioco stiamo giocando? Doom, Minecraft, Monkey Island, GTA oppure Zork? Procedendo nel libro ci si rende conto che per Baricco videogioco significa principalmente due cose: punteggio e gradevolezza dell’interfaccia, Flappy Bird e Candy Crush. L’iPhone è come un videogioco perché le icone sono come caramelle, mentre Facebook è come un videogioco perché si possono contare i Like. Tinder? «un specie di videogioco elementare» (p. 202). Le serie tv? hanno «chiaramente la struttura di un videogame». Ok, l’autore include ulteriori aspetti della logica dei videogioco come «sequenze rapide di azioni e reazioni», «apprendimento dovuto alla ripetizione e non ad astratte istruzioni per l’uso» ma resta tutto comunque un po’ generico.
Il punto è che se ci atteniamo a questa definizione, anche la patente B è un gioco. Chiariamo allora l’equivoco: l’attuale mondo online non è ludico ma giocoso. Ludico è ciò che permette a chi vi prende parte di articolare o sospendere le proprie regole. Giocoso invece è ciò che ha la parvenza di un gioco. Google ce la mette tutta per sembrare divertente, conviviale, quasi infantile. Lo stesso fa Facebook con trovate sempre nuove per creare un ambiente cozy. Chi ha vissuto l’età dell’oro di MySpace è sensibile a questi sforzi che rendono il risultato posticcio, kitsch. E qui Baricco ci regala alcune immagini utili a decifrarne l’effetto:
[…] la forchetta-aeroplanino che vola e poi entra in bocca… Il vasino fatto ad astronave… Il papà che si tramuta in mostro, o aquila, o cactus, dipende dal problema da risolvere. (p. 142)
Questi stratagemmi sono il pane quotidiano di piattaforme che mirano a infantilizzare i loro utenti, a convincerli che è tutto un gioco, peraltro facile e divertente. D’altra parte l’attitudine genitoriale delle piattaforme era presente già dai primi tempi, basti pensare al don’t be evil di Google. Baricco ci casca in pieno e perciò si limita a riscrivere letterariamente il perenne comunicato stampa di tutte le società hi-tech. Non solo, è convinto che non si tratta solo di espedienti: Steve Jobs col primo iPhone si divertiva davvero. Ovvio, l’ha “inventato”! Ma allora noi dovremmo sentirci in colpa se lo smartphone ci provoca perlopiù ansia e preoccupazione? Se il nuovo spot della Apple non riflette minimamente la nostra vita vissuta?
MENTI
L’autore inquadra il fenomeno che chiama Game innanzitutto respingendo l’allarmismo tipico dei media. E qui non gli si può dare torto, perché a giudicare da quello che si scrive sui giornali qualsiasi nuova funzionalità sarebbe l’ennesimo sintomo di una catastrofe imminente. Però nel groviglio allarmista i motivi concreti di preoccupazione ci sono e non sono pochi. Un esempio fra tanti: gli esperimenti sociali di Facebook sull’umore degli iscritti.
Baricco riduce l’insieme di angosce a una serie di paure ataviche nei confronti delle reti digitali. Ma a fronte della «generazione di un uomo nuovo scaturito casualmente da una trovata tecnologica irresistibile», la paura che la ricchezza sia distribuita in modo ingiusto (esempio dell’autore) appare poco più che un cruccio, una pedanteria. Miope è inoltre chi si concentra sugli effetti delle tecnologie piuttosto che sul modello di umanità che le ha generate. Per capirci qualcosa però bisogna fare esattamente il contrario: «Cercate l’intelligenza che ha generato la rivoluzione digitale» (p. 32). Si tratta di una prospettiva legittima, di un proposito utile. Ma quale intelligenza va a interrogare Baricco? Quale testimonianza ci viene offerta della visione del mondo, delle ambizioni e delle contraddizioni «della mente che ha generato uno strumento come Google» (p. 31)?
Brin e Page fanno scena muta, Jeff Bezos chiede i soldi al padre, Steve Jobs si diverte da matti, Wozniak non si presenta nemmeno, Zuckerberg suda durante l’interrogazione. Questo è quanto. Il fine ultimo del libro è tradito perché dell’intelligenza costituita da queste menti, dei suoi conflitti, dei suoi dubbi, delle sue ambiguità, ci viene detto poco o niente. A parte i soliti noti, le cui biografie riempiono comunque gli scaffali, fanno capolino alcune personalità meno ovvie. Ne cito due: Douglas Engelbart e Stewart Brand. A Engelbart si devono parecchie intuizioni poi diventate standard di utilizzo dei computer (il mouse, l’interfaccia grafica ecc). Non solo: l’obiettivo esplicito del lavoro di Engelbart è stato quello di accrescere («aumentare») l’intelligenza umana attraverso l’uso di strumenti. Stewart Brand, oltre a essere stato assistente di Engelbart, è il padre del Whole Earth Catalog, iconico inventario controculturale degli strumenti che favoriscono autonomia ed ecologismo. Il WEC ha ispirato, tra gli altri, anche Steve Jobs.
Chi compare più volte in The Game? Stewart Brand of course, perché è impossibile resistere al lato hippie della rivoluzione digitale (faccenda spiegata bene nel libro From Counterculture to Cyberculture di Fred Turner). E infatti Baricco si fa travolgere dall’aneddotica e comincia subito a parlare di insurrezione digitale, dimenticando che i legami tra ingegneri e potere costituito non sono mai stati marginali. Più difficile e forse più noioso è invece tentare di interpretare il pensiero dei tecnici attraverso gli strumenti a loro più consoni: i prototipi, le specifiche, i paper accademici. Ci troviamo dunque a leggere un libro sugli «strumenti che cambiano la civiltà» (Brand), senza in fondo sapere chi o come o perché abbia progettato questi strumenti. Ne deriva un’immagine sfocata, un racconto dolorosamente stilizzato che pare un elenco puntato creato ad hoc dall’autore per giustificare le sue tesi. Baricco lamenta l’omogeneità di questo piccolo gruppo di fondatori. Dove sono finite le donne? si chiede. Ma la loro assenza si deve anche al taglio del volume, che predilige i detentori della “visione”. Considerato il focus sull’aspetto ludico della rivoluzione digitale, basterebbe poco a includere personalità di sesso femminile che hanno giocato un ruolo chiave. Mi viene in mente ad esempio Susan Kare, creatrice delle memorabili icone per il Macintosh.
ANTAGONISMO
Baricco individua due ondate di resistenza rispetto all’insurrezione digitale dei pionieri: la prima messa in atto dalle élite minacciate dalla rivoluzione digitale e la seconda fomentata dagli stessi protagonisti del Game, che cominciano a denunciarne le storture. La prima si colloca nella fase di colonizzazione (1999-2007), la seconda nel Game vero e proprio (2008-2016).
I dubbi rispetto a questa cronologia non mancano. Innanzitutto, non c’è traccia delle controversie rispetto alla civiltà delle macchine che pur animavano la spinta controculturale americana. Penso al Free Speech Movement di Berkeley, che prendeva le schede forate (floppy disk ante litteram) a simbolo della deumanizzazione del sistema scolastico e della società in toto. In secondo luogo mancano le tensioni interne, le voci fuori dal coro che hanno accompagnato l’evolversi della cultura digitale fin dai primi tempi. Dov’è Ted Nelson, che ha coniato il termine ipertesto e dato alle stampe un libro seminale sul rapporto uomo- computer, e che da decenni condanna il web nella sua versione attuale? Che fine ha fatto Richard Stallman, che negli anni ‘80 ha dato avvio a un movimento globale incentrato sul free software e che è giunto a dire che lascomparsa di Jobs è stata un bene per l’umanità? Che ne è stato di Alan Kay, che negli anni ‘70 ha immaginato una sorta di pre-iPad per bambini e ha poi apertamente condannato i dispositivi della Apple perché producono un’asimmetria tra produzione e consumo, chiaramente a favore del secondo tipo di attività. Una critica particolarmente utile, quella di Kay, dato che per Baricco basta avere uno smartphone per potersi considerare a tutti gli effetti protagonisti dell’insurrezione.
È necessario allora chiarire un punto: l’insurrezione digitale non è soltanto una guerra contro un nemico esterno ma è costellata di lotte intestine combattute entro le sue stesse barricate. Tra i detrattori dell’attuale civiltà iperconnessa non ci sono solo vecchi dinosauri inchiodati alla poltrona, e nemmeno solo alcuni membri della tecno-elite improvvisamente rinsaviti. I loro scenari tecnologici alternativi, ovvero il Game che sarebbe potuto essere, restano nel dimenticatoio (a parte una breve ma succosa sezione sulle dot.com fallite). È un racconto col senno di poi, che è poi il senno dei vincitori.
NOVECENTO
Ciò che spinge Baricco a parlare di insurrezione digitale è l’idea che questa sia stata una risposta intuitiva e un po’ caotica alle rigidità del Novecento e ai suoi esiti più tragici. Una reazione mossa dalla paura, una risposta che rivendica il movimento, l’orizzontalismo e l’assenza di confini prestabiliti. Ma siamo sicuri che la rivoluzione tecnologica in cui siamo immersi sia in completa opposizione con guerra e sterminio di massa? Consideriamo l’Olocausto, citato più volte nel libro. Se lo osserviamo attraverso una lente tecnica, possiamo ritrovare degli aspetti che sono propri della rivoluzione digitale. Consideriamo un elemento altamente simbolico, la matricola tatuata sul braccio. Di cosa ci parla quel numero se non di una razionalistica digitalizzazione della vita umana, di una fredda astrazione tecnica, di corpi accumulati come dati? Tra l’altro, una società tutt’altro che estranea alla diffusione dei computer ha giocato un ruolo chiave in questa agghiacciante impresa: l’IBM. Lo racconta Edwin Black nel suo IBM and the Holocaust. Attenzione però, con questo non intendo dire che i computer sono di per sé tirannici, ma solo che ritenere lo spirito digitale prettamente anti-totalitario, aperto, mobile, rischia di essere una semplificazione consolatoria.
IPERLINEARITÀ
Ignoriamo per il momento il proposito del libro e concentriamoci sull’evoluzione delle tecnologie mettendo in secondo piano i principi di chi le ha concepite. Prendiamo l’avvento delle app, che Baricco fa passare per una specie di metamorfosi in senso ludico dei software e come un’estensione del Web:
[…] abbiamo iniziato a inventare programmi molto piú pop di Word, e definitivamente figli del Game: migliaia di videogiochi, naturalmente, ma anche programmi che ti ricordavano quando dovevi andare in bagno, o ti dicevano cos’era la musica che stavi sentendo al supermercato o ti viravano le tue foto che sembravano quadri di Van Gogh. […] Da quando i programmi sono diventati App abbiamo iniziato ad amarli, a usarli, a fidarci di loro, e a giocare con loro. Sono diventati, per cosí dire, animali domestici: prima erano orchi. La cosa ha avuto una conseguenza che dobbiamo assolutamente registrare: con le App abbiamo aperto una quantità immensa di porticine per l’oltremondo.
Ancora una volta l’autore si limita a un’interpretazione promozionale. Egli dimentica che migliaia o milioni di videogiochi e programmi “pop” esistevano già prima delle app: videogiochini in Flash, applicazioncine per il Desktop che non dovevano passare alcun controllo qualità e non rischiavano la censura (come avviene oggi nell’Apple Store). Dimentica inoltre che una volta passato l’entusiasmo iniziale gli utenti tendono a non scaricare più alcuna app e accedere all’oltremondo attraverso quattro o cinque porticine predefinite. Libertà di movimento, velocità, leggerezza, ovvero ciò che per l’autore è espressione insurrezionale del web, tende a dissolversi nell’economia delle app.
Baricco celebra l’invenzione del link ipertestuale, grazie a cui abbiamo sviluppato l’impressione di muoverci liberamente in uno spazio virtuale. Oggi questa sensazione si affievolisce: se il web dei primi tempi si poteva considerare non-lineare, quello attuale si dovrebbe definire iper-lineare: una cascata unica, continua, verticale, nella quale ci si tuffa per poi riemergere poco dopo. Oppure un infinito scaffale da cui scegliere un prodotto, come al supermercato. L’hyperlink, questo strumento rivoluzionario, ha perso la sua forza dirompente. I link non si vedono più, non si creano nemmeno, sono diventati struttura tecnica invisibile. Baricco usa un’espressione commovente per parlare del modus operandi nel web delle origini: «artigianato minuto». Ebbene, sul web generalista di quell’operosità artigianale non vi è più traccia: gli utenti sono avventori, al massimo decoratori. È venuto a mancare il laboratorio, sostituito dal centro commerciale.
ÉLITE
Nel libro la parola “élite” compare spesso. Così spesso da sembrare una strizzatina d’occhio all’attuale dibattito sui populismi. Il giudizio in tal proposito è ogni volta un po’ troppo perentorio. Sacerdoti, élite, caste: non si parla qui di chi detiene, per fare un esempio, una parte consistente della ricchezza mondiale, e nemmeno di chi occupa posizioni di potere o di prestigio (per Baricco i programmatori e gli ingegneri della Silicon Valley non sono tanto élite perché «piuttosto propensi a lavorare nell’ombra.») Le élite spazzate via dall’insurrezione digitale sono quelle composte da mediatori di qualsiasi tipo, come la categoria dei tassisti. A tal proposito mi viene in mente una delle prime rivoluzioni propriamente dette legate ai computer, la rivoluzione del desktop publishing: quella che ha fatto sì che ci si potesse scrivere e impaginare una rivista, un libro, un pamphlet direttamente a casa propria. Quale potentissima élite è stata spodestata da questo repentino mutamento tecnico? La famigerata massoneria dei tipografi!
Colpo di scena: una volta decimati i ranghi della vecchia élite, se ne afferma una nuova, popolata da chi è in grado di giocare e vincere al Game, da quelli che contano la «post-esperienza» tra le loro skill, da quelli che al netto delle invenzioni linguistiche dell’autore, chiameremmo influencer o power user. Un’élite molto traballante, verrebbe da dire, dato che spesso basta un piccolo cambiamento nell’algoritmo per far sì che si perdano tutti i punti accumulati.
L’ANTI-GAME
Rovescia The Game e viene fuori Futurabilità, l’ultimo libro di Franco Bifo Berardi: la svolta connettiva, quella che per Baricco è una mossa istintiva contro il tragico culmine novecentesco, rappresenta per Bifo l’avvento di un nuovo nazionalsocialismo tecnologicamente lubrificato. La mappa apparentemente neutrale ma tutto sommato fiduciosa di Baricco si sovrappone a quello che per Bifo «è un continente fatto di caos mentale, di immiserimento sociale, di sofferenza psichica diffusa». Chi tra i due è il cartografo più accurato del presente? Su questo non ci esprimiamo, ma possiamo dire che la lettura di Bifo, benché più sintetica, apodittica e un po’ ostica pare più sentita, mossa da una visione più concreta. E forse per questo disperata. Bifo è catastrofico, ma non come lo sono i giornali che parlano di tecnologia. Il suo non è un melodrammatico «dove andremo a finire!», è un aggirarsi tra le macerie, un districarsi tra cavi scoperti. Il libro di Bifo è comunque teso a costruire una via d’uscita, mentre quello di Baricco è blandamente ottimista e per questo asfittico per chi non si riconosce nella sua interpretazione.
Bifo si sforza di far emergere l’ambiguità e i dissidi insiti nell’ambiente tecnologico. A questo proposito spiega che:
La tecnologia non è una catena di implicazioni logiche, ma un campo di possibilità immanenti e in conflitto. Fin dagli inizi, tecnologica elettronica e reti digitali hanno reso possibile un processo di trasformazione delle relazioni sociali e della produzione, un processo che a sua volta era suscettibile di evoluzioni possibili e divergenti. (p. 36)
Quello che per Baricco è un risultato compiuto e tutto sommato stabile, ovvero una giovane civiltà prodotta da dispositivi connessi tra di loro, è per Bifo «un’illusione proiettiva» (p. 43). È proprio questa l’illusione che guida l’autore di The Game, secondo cui la missione di Zuckerberg è davvero quella di «connettere gente». Baricco ci chiede di rovesciare il punto di vista, ma si tratta davvero di un rovesciamento se alla fine ci si para davanti una Silicon Valley dipinta come una cittadella rinascimentale? Per Bifo quella cittadella è un bunker.
Anche Futurabilità inquadra videogiochi e serie tv ma lo fa in modo differente, approfondendo le regole del gioco, la “meccanica”. Il gioco non è un gioco qualunque: è Hunger Games. La serie è Game of Thrones. Sorprendentemente Bifo e Baricco registrano in maniera quasi identica la diffusione del digitale su larga scala. Entrambi concordano sul luogo di questa diffusione – la sale giochi – e sulla sua evoluzione: calcio balilla/flipper/videogioco. Tuttavia non potrebbero parlarne in maniera più diversa. Ascoltiamo Baricco:
Corpo? Sparito. Non c’è quasi piú nulla di fisico in senso stretto, la pallina (i marzianini) non è reale, non lo sono i suoni. Uno schermo, che nel calciobalilla non c’era e nel flipper stava lí a contare i punti, adesso si è divorato tutto, DIVENTANDO il campo da gioco. È tutto immateriale, grafico, indiretto. Se c’è una realtà, è offerta in una rappresentazione sotto vetro che non posso modificare se non attraverso dei comandi che le sono esterni e che in maniera impersonale le comunicano degli ordini. Sulla carta sembra tutto molto freddo, costrittivo, asfittico, in fondo triste: ma adesso mettetevi a giocare e cercate di sentire l’improvvisa mancanza di attrito, la levigatezza del piano da gioco, la leggerezza del gesto, il flusso quasi liquido di ordini e decisioni, la riduzione di qualsiasi situazione di gioco alla sua essenza, la pulizia del sistema, la possibilità di concentrazione quasi assoluta, la velocità dell’accadere. Scommetto che iniziate a capire perché rimasero senza monetine, quelli là.
Rivolgiamoci ora a Bifo:
In quel tipo di primordiale videogame, la macchina prima o poi vinceva sempre – e questo indipendentemente dalla velocità e dalle abilità del giocatore. Le macchine combattevano contro il loro creatore umano, e vincevano: perché era stato lo stesso creatore umano ad aver concepito la macchina in modo tale che non potesse essere sconfitta. Quello che si andava profilando era il mondo del game over integrato: un mondo in cui l’automa vince grazie alle istruzioni inscritte nel suo design. (p. 66)
Per entrambi si tratta di una mutazione irresistibile ma se per Baricco la scomparsa della dimensione corporea è un vantaggio, per Bifo ciò conduce al «gioco frigido» a cui tutti sono costretti a giocare.
SOSTENIBILITÀ
La dimensione corporea e il «game over integrato» si possono ricollegare a una questione cruciale riguardante il Game il cui autore nemmeno sfiora: quella della sostenibilità fisica e di quella neurologica, come la chiama Ivan Carozzi. Detta in altri termini: quante partite bisogna giocare prima che il gioco diventi noioso o addirittura intollerabile? Perché se consideriamo punteggio, immediatezza e grafica carina, i giochi a cui giochiamo seriamente sembrano tutti uguali: vince chi accumula. Non importa cosa: follower, reazioni, download, attenzione, ingaggi, commissioni, offerte di lavoro, consegne a domicilio, partner sessuali…
Baricco tesse le lodi della post-esperienza, quella vibrazione provocata dalla mescolanza di vari input, dai collegamenti immediati, da un’attività superficiale e rivolta su più fronti. Una lampante espressioni della post-esperienza? Il multitasking. L’autore osserva adolescenti che nel multitasking ci sguazzano e si convince che in loro deve essersi generata una nuova capacità di stare al mondo, un cervello diverso; si convince che sono i primi esponenti di un’umanità aumentata. Il telefonino non è per loro medium ma protesi: non fa da tramite bensì estende l’occhio e la mente. È naturale come lo è un paio di scarpe.
Dato che questa deduzione deriva dall’osservazione della post-esperienza altrui, mi permetto di considerare quella mia e dei miei coetanei. Io ho 33 anni e ho passato buona parte delle mie ore di veglia in quella che Baricco chiama postura uomo-tastiera-schermo. Per più di un decennio questa postura mi è parsa naturale: lo schermo non lo vedevo, la tastiera non la usavo: esistevano davvero solo simboli grafici e alfanumerici. A un certo punto qualcosa è cambiato: la postura mi si è ritorta contro provocando stanchezza, fatica agli occhi, piccoli acciacchi. E non solo a livello fisico: il multitasking si è rivelato improvvisamente per quello che era davvero: non un’agile coreografia, ma una guerra di trincea. Oggi temo la casella email, Facebook mi terrorizza e raramente provo gratificazione quando sono connesso. E dire che quello che faccio, anche quando lo faccio per soldi, è legato in qualche modo – mi vergogno a dirlo – alle mie passioni!
Sarà che l’incantesimo si è spezzato, riconvertendo la passione in tedio e fatica. Ma se le cose stanno così vale la pena sollevare una questione metodologica: chi bisogna prendere a modello per capire cosa significa vivere nel Game? L’adolescente che cazzeggia online o il cognitario 30-40enne che produce contenuti per un’agenzia di marketing? O ancora l’impiegato di mezza età diviso tra email e fogli Excel?
Generalizzando, il problema di metodo va posto in questi termini: si può osservare il Game prescindendo da attività specifiche, da stili di vita, da classe e censo? Ovvero da tutto ciò che è apparentemente esterno al Game? È un quesito che suggerisce un’ulteriore ipotesi: e se il Game fosse quello là fuori? Se fosse in qualche misura preesistente alla rivoluzione digitale? E se quest’ultima ne avesse semplicemente assunto le fattezze, esasperandolo?
Prendiamo l’ipotesi per buona. Allora per capire il Game non ci serve l’ennesimo elogio dei padri fondatori, non ci serve una racconto progressista che giustifica lo stato dell’arte. Certo, non ci serve nemmeno l’allarmismo dei giornali, il cui scopo è quello di posizionarsi nel Game piuttosto che di contestarlo. Però non ci è nemmeno utile prendere il pargolo che pincha e zumma sul giornale di carta ed eleggerlo a buon selvaggio della nuova era. A scanso di equivoci: non sto dicendo che gli unici testimoni del Game debbano essere giovani, qualsiasi cosa ciò voglia dire. Il mio è un attacco al giovanilismo inteso come sguardo meravigliato nei confronti dell’apparente agio giovanile nell’oceano digitale. Rivolgiamoci allora per l’ultima volta a Bifo, che ci lascia un po’ sorpresi: «Per quanto paradossale possa sembrare, occorre un approccio senile all’immaginazione del futuro. Ammetto che, al momento, una simile prospettiva appare a dir poco improbabile» (p. 111).
Anche la cronaca di Baricco è in grado a volte di sorprenderci, come quando si sofferma su LinkedIn, il primo social media a tutti gli effetti di cui non parla nessuno, e proprio di sorprese abbiamo bisogno: ci servono cronologie alternative di internet, vicende passionali, ucronie azzardate, racconti orali della rete, pronostici destabilizzanti. E ci serve che questi provengano da voci diverse, da cori di voci, da voci in grado di comprendere l’umanesimo nella tecnica e la tecnica nell’umanesimo