di MATTEO ALBANESE
Il libro di Cinzia Sciuto, Non c’è fede che tenga, individua correttamente i problemi che la risposta multiculturalista non può affrontare, ma ripiega poi su un normativismo liberale che comprime i diritti di cittadinanza. Ma di quest’ultimi bisogna ricrearne gli spazi.
Ho letto con piacere l’interessante libro che Cinzia Sciuto ha dedicato alla questione della laicità e al modo in cui una società aperta dovrebbe confrontarsi con la religione. Un testo piuttosto denso in cui le riflessioni della giovane filosofa spaziano dalla questione della laicità all’identità e alla democrazia con la dichiarata volontà di voler porre le basi per la rinascita della sinistra. Un progetto grandioso e importante che rimette in campo la necessità storica di riavviare un dibattito sulle grandi narrazioni uscendo dal relativismo politico culturale. Il volume solleva alcuni punti rilevanti e in particolare le due questioni centrali che vengono affrontate e sulle quali ritengo sia doveroso soffermarsi sono la cittadinanza e la sinistra.
Cittadinanza e potestas
Essere cittadino è una questione complessa che si lega indissolubilmente alla cultura del luogo in cui si esercita questa cittadinanza, oltre che, ovviamente, al tempo storico in cui si vive. Essere cittadini statunitensi è per esempio alquanto differente dall’essere cittadini italiani, poiché diverso è il meccanismo di acquisizione della cittadinanza: negli Usa è un diritto che si acquisisce con la nascita sul suolo americano, mentre in Italia è nella maggior parte dei casi legato alla genitorialità (con delle eccezioni, come l’acquisizione a seguito di una lunga permanenza nel paese). I due sistemi sono insomma antitetici: ius soli o ius sanguinis. Una distinzione cara all’estrema destra, europea e statunitense, di fronte alla quale, come sostiene Sciuto, la risposta del multiculturalismo si rivela alquanto debole.
A mio avviso il soggettivismo postulato dalla sinistra post-1970 sembra sfociare in un individualismo sterile che, mettendo i poveri gli uni contro gli altri, disgrega una lettura di classe. Aveva ragione David Harvey nel dire che il postmodernismo della generazione sessantotto sguazzava in un consumismo acritico in cui il consumo sarebbe diventato il solo orizzonte di pensiero e, soprattutto, di identità. Se siamo quello che consumiamo, il riconoscimento di classe collettivo perde senso. I soggetti, reali o immaginati, solidi o fluidi prendono il sopravvento. L’identificazione residuale e spezzettata del sé migra dai processi produttivi e si sposta su ciò che ci definisce come consumatori: gusti, orientamenti, generazioni, su ciò che crea gruppi effimeri.
Nelle pagine del libro di Sciuto vi è uno spiccato afflato democratico che, seppur condivisibile, risulta in molti passaggi più un limite che una risorsa. L’autrice attacca giustamente Will Kymlicka per quelle sue posizioni che rischiano di creare differenti status giuridici all’interno di uno Stato, modellando de factodelle comunità tra loro indipendenti a seconda del diritto di nascita. La risposta, che non ci appare esaustiva, è quella tipicamente kantiana dell’uguaglianza di ogni individuo di fronte alla legge. Ma la legge, naturalmente o normativamente imposta, non è spesso uno strumento di riproduzione della cultura delle classi dominanti? Esiste forse un diritto neutro? Se andiamo ad analizzare ad esempio i diritti fondamentali, constatiamo che anch’essi non sono “neutrali”. In questo quadro anche il diritto di cittadinanza è un diritto storicamente di proprietà. Da sempre “l’essere cittadino” è legato “all’essere proprietario” e in virtù di questo, ritroviamo nel diritto borghese il suffragio legato al ceto e alla classe. Visti da una prospettiva storica i princìpi fondamentali di fondamentale hanno ben poco. Fuori da una prospettiva storica i diritti non esistono e in realtà non esiste nemmeno il concetto di umanità. Su questo, duole dirlo, forse Kelsen era in errore e Schmitt aveva ragione. La cittadinanza non esiste in assoluto, ma esistono forme differenziate. A tal proposito è interessante vedere come a queste forme così diverse, lontane geograficamente e anche culturalmente, si opponga una destra nazionalista che agita gli stessi spettri, in Europa come negli Usa. Pensiamo ad esempio alla formula che la destra utilizza nel respingimento: prima gli italiani. Come se la cittadinanza si fosse, di colpo, spostata sul terreno della nazionalità e non della statualità. Sei cittadino se appartieni a una comunità precisa in senso etnico, non se ne vivi lo Stato nelle sue forme prima sociali ed eventualmente giuridiche. Il respingimento avviene fuori dalla comunità, impedisce su base etnica a un cittadino di uno Stato di spostare con sé il proprio diritto alla cittadinanza dentro un altro Stato. Blocca lo straniero tramutandolo in nemico, gli nega la possibilità stessa del diritto di cittadinanza.
Ora, se la sede “naturale” della norma fosse l’individuo assoluto, fine e non mezzo come scrive Sciuto, perderebbero di senso quasi 200 anni di storia, di dialettica politica intorno al corpo vivo del re e del potere da trasferire al popolo. Al contrario quei 200 anni hanno avuto il senso profondo di trasformare in cittadini i diseredati, di uscire dai ceti ed entrare nel mondo delle classi sociali che sappiamo essere divise ma con diritti, almeno formali, identici. Questi processi, che si sono fondati su un ideale democratico, liberale e anche individualista hanno avuto il sostegno di un moto collettivo che travalicava la monade-individuo. A questo il volume dedica alcuni passaggi e auspica un ritorno a forme politiche organizzate che siano più solide e dai confini più netti. Tuttavia i soggetti sono fatti per la politica, ed è quindi naturale chiedersi se la forma di individualismo liberale proposto nel testo sia quella adatta a fronteggiare la destra odierna. Non come puro esercizio retorico ma perché è l’autrice a volersi confrontare, coraggiosamente e giustamente, con la questione «sinistra». Se accettiamo dunque la dialettica tra le parti riteniamo doveroso mettere in chiaro qual è la posta in gioco, ossia il potere e in particolare la potestas. Poter fare, poter decidere, non è una prerogativa al di sopra della legge, non è quell’eccezionalità schmittiana che modella la legge dentro un processo demiurgico di tipo autoritario che richiama la democrazia come rapporto diretto tra popolo e leader, bensì è un potere che si sostanzia hobbesianamente nella direttiva naturale dell’uccisione del tiranno. È affascinante il diritto alla ribellione: se il governante si trasforma in tiranno, se rompe il patto sociale, i singoli si possono riappropriare della loro violenza e abbatterlo. Va da sé che per farlo debbono organizzarsi, devono farsi gruppo politico, partito. Un diritto, naturale, alla ribellione e al dissenso che è, però, portatore di istanza organizzatrice delle masse e dei popoli; non violenza cieca e distruttiva ma leviatanica, ordinatrice e portatrice di altro stato di umanità: un primo passo verso l’uscita dallo stato di minorità.
Un processo collettivo che detiene in sé l’obiettivo strategico dell’allargamento all’intera cittadinanza della possibilità di esercitare potere sarebbe difficile pensarlo come organizzato. Del resto, il motivo per il quale Gaetano Bresci spara a un re, mentre nelle guerre moderne si bombardano i civili ci fa comprendere il nodo della questione: il potere si è spostato dal corpo sacro del regnante al corpo, quasi mistico, dei cittadini. Il potere, dunque, migra materialmente, mentre è più difficile capire come si muove la potestas. Le istituzioni democratiche dovrebbero porre ordine a questo scollamento, ma quando, come accade in questi anni, il cittadino portatore di diritto si sente svuotato della propria potestas riappaiono mostri terrestri beehemontiani, caotici distruttori delle istituzioni in nome della riappropriazione. Ridiventare proprietari e, di conseguenza, portatori di diritti. Su questo senso di spoliazione e di riconquista del territorio della patria e del sangue, contro il quale la sinistra non è riuscita a intervenire in modo efficace, si fonda la destra odierna. A livello transnazionale le destre individuano nella purezza della comunità la pietra angolare su cui costruire un nuovo paradigma esclusivo e potenzialmente autoritario. Il volume afferra adeguatamente questo nodo e prova a fornire una risposta intrigante e ricca: i diritti dell’individuo sono il “colpo di reni” che dovrebbe rialzare le sorti di una società libera e democratica. Ricordiamo, tuttavia, che l’individuo normato non esiste, è creatura mitologica che si sfalda al confronto con la nudità dei rapporti di produzione e riproduzione sociale. Alexander Dugin e Steve Bannon hanno studiato De Benoist e Gramsci ma non si sono, purtroppo, soffermati su Kant e Kelsen e applicano le loro categorie cercando di creare un blocco storico tra borghesia impoverita del Nord, nostalgica della svalutazione, e sottoproletari del Sud abbandonati dalla sinistra moderata al proprio destino, in cerca non più di rivalsa ma di una vera e propria vendetta, come ha scritto Revelli nel suo ultimo saggio. La destra sembra sfidare la sinistra sul piano della rappresentanza del popolo, ma come sappiamo non si tratta di una novità. In questo quadro, ci appare curioso che la sinistra possa rispondere a questa sfida con il ritorno all’individuo. Perché, pur riconoscendo la centralità della questione dei diritti individuali, che riteniamo una battaglia democratica e liberale che ogni sinistra dovrebbe sostenere a occhi chiusi, sappiamo che non può esaurire il pensiero socialista.
Sinistra e potere
Il secondo punto, ovviamente incardinato al primo, è dunque la sinistra. Il problema odierno della sinistra è quello di definire nuovi terreni identitari? Su questo riteniamo che in una relazione dialettica con la destra odierna sia più utile chiedersi dove la sinistra socialista europea ha fallito. Se usciamo, lateralmente, dall’ideologia liberale, ci troviamo, prima o dopo, di fronte alla Storia. Quella dei tempi lunghi e quasi immobili, tempi che inesorabilmente sono scanditi da crisi e da fratture. La crisi che attraversiamo oggi ha radici lontane, parte dalla fine del modello fordista per arrivare fino a oggi. Un modello economico non muore improvvisamente ma si trascina in una lenta agonia e la sua fine porta con sé milioni di donne e di uomini con il loro carico di sogni, aspirazioni, vite e habitus. Il buon vestito sartoriale che ci hanno cucito addosso, fatto di convenzioni, leggi, comportamenti si sbrindella, non copre più e non offre più riparo dal freddo. La classe operaia, quella che doveva fare la Rivoluzione e dare l’assalto al cielo, quell’entità mitologica che avrebbe dovuto portare a termine la trasformazione della plebe in classe dirigente, con in mezzo la parentesi borghese dei diritti civili, crolla come un castello di carte. Si trova di nuovo nuda alla mercé degli elementi; proprio come quando era plebe. A tal proposito sembrerebbe profilarsi, come afferma Supiot, quell’immagine di rifeudalizzazione del diritto e dei diritti che storicamente esisteva prima che le plebi cominciassero il lungo viaggio che le avrebbe tramutate in popolo, prima della lunga marcia per l’acquisizione dei diritti politici. Ed è, nuovamente, il diritto di cittadinanza a divenire centrale, diritto che, come ha giustamente detto Castel, è basato sulla proprietà e non sulla nascita, e che dunque una volta acquisito può anche essere perso. A nostro avviso con la perdita del salario a tempo indeterminato (succedaneo della proprietà durante la fase fordista) anche il diritto di cittadinanza ha perso senso sino a decadere quasi completamente (Castel chiama questo processo “spossessamento”). Si era tentato di stabilirlo, al di là della proprietà, con il salario a vita, con i contratti a tempo indeterminato. Era, però, una mera illusione. La precarietà, figlia di una fase di ri-accumulazione primitiva, impone l’abbattimento del monte salari e non è un caso che dopo i diritti sociali a essere sotto attacco siano i diritti civili e politici, primo fra tutti la cittadinanza. Non sarà forse chiaro a tutti ma la difesa dei diritti di cittadinanza, come rivela Sciuto nel suo volume, è fondamentale. Per tutelarli bisogna riappropriarsi del potere politico, nessuna norma potrà salvarci dal tornare solo plebe spogliata materialmente e giuridicamente di qualsiasi diritto.
Riuscire a spiegare per quale motivo non si sia saputo resistere a quest’onda che si è abbattuta sull’identità stessa della sinistra non è affatto facile ma la riflessione che il volume esercita sul normativismo liberale può aiutarci. Per chi, come chi scrive, pratica la storia e si è concentrato sulla storia del fascismo l’analisi della crisi di fine secolo è passaggio obbligato. Una considerevole parte della storiografia nazionale ha analizzato quella fase ed è interessante vedere come Acquarone prima e Gentile poi abbiano riflettuto sul cambiamento non solo strutturale del mondo liberale, ma su quelle culture politiche che lo hanno investito con l’avvento dei partiti di massa e il suffragio universale. Un sistema di pensiero e di riferimenti va in crisi di fronte a quella che Harold James ha chiaramente descritto come una crisi globale da eccessiva finanziarizzazione. Il vecchio mondo non era ancora morto, il nuovo faticava a sorgere e in quel chiaro-scuro nascevano i mostri. Il mostro del fascismo che si contrapponeva non soltanto al bolscevismo ma anche all’americanismo. L’americanismo che meglio interpretava la globalizzazione come fatto di massa e spostava la cittadinanza in pura rappresentanza espellendo la partecipazione. Un americanismo, oggi morente, che, dopo la caduta dei regimi sovietici, vede moltitudini di spossessati, di subalterni premere alle nostre frontiere in cerca di quei diritti di proprietà che il popolo è pronto a perdere, facendosi rigettare nello stato di plebe minorata. L’americanismo, la fase fordista del capitalismo, quella manifatturiera, degli opifici, della grande fabbrica e del mare di lavoratori. Quel modello si portava dietro, in Europa occidentale, un imponente sistema di welfare che ha fatto sognare la cittadinanza anche a coloro i quali non avevano titoli di proprietà. Avevano, però, i lavoratori dipendenti un salario a vita. Ecco, non sarà stata proprietà, ma ci si avvicinava. Su quello è stata creata la mitologia di uno sviluppo senza fine, una sorta di sviluppismo, in cui è caduta anche la sinistra ammaliata dall’epopea dell’Unione sovietica. La crisi da sovrapproduzione cominciata nel 1973, e non ancora finita secondo alcuni economisti, ha spazzato via il sogno di salari perpetui e di rivoluzioni socialiste. L’ondata liberista, il cui primo esperimento è stato fatto nel Cile di Pinochet, ha preso piede con Reagan e Thatcher per poi espandersi. Di fronte all’internazionalizzazione non sono state solo le produzioni a smaterializzarsi; i salari hanno subìto lo stesso processo. Senza salari anche il welfare ha cominciato a essere smantellato. Le privatizzazioni, a cui la sinistra moderata ha aderito in nome di una terza via che prevedeva la finanziarizzazione della povertà, in Italia sono state compiute dai governi di centro-sinistra molto più che non da quelli di marca berlusconiana. Il ridimensionamento dei diritti sociali ha, però, portato con sé non solo una nuova forma di povertà ma uno strano sentimento di vendetta da parte di chi stava perdendo potere, d’acquisto e politico, e potestas fino alla disperazione di uno scambio fino a ieri inimmaginabile. Il voto verso i partiti dell’estrema destra xenofoba da parte di milioni di questi spossessati non solo è la riprova della capacità della destra di creare blocco sociale ma, soprattutto, evidenzia la disponibilità di quelle masse a cedere sull’universalità dei diritti, sia sociali che politici, in nome di una rivalsa che si abbatta anche un po’ a casaccio. In quella sottile forma di soddisfazione, rintracciabile nelle migliaia di haters che popolano la rete, odiatori del diverso, si sostanzia la spoliazione ultima del popolo che torna plebe. Una plebe che cerca tribuni e non cerca forme di organizzazione sociale e politica. In questo quadro Larry Summers parla, come ne parlò Alvin Hansen negli anni ’30, di stagnazione secolare; se ha ragione, la crisi è lungi dall’essere finita. Ora, se il meccanismo di produzione innesca un triplice processo dentro il quale troviamo la contrazione feroce del monte salari, le guerre e l’iper-finanziarizzazione, è auspicabile che il centro dell’azione politica torni a guardare al potere come modalità di riappropriazione di spazi di democrazia e di libertà. Spazi che, come riconosce in modo appropriato Cinzia Sciuto, si riconquistano con la cittadinanza.
Matteo Albanese, storico, Research Fellow ICS Università di Lisbona