Francesca Pilla Vincenzo De Luca è il candidato del Pd che in Campania sfiderà Stefano Caldoro. È l’uomo del giorno e in serata si presenta all’Hotel Vesuvio, sul lungomare di Napoli, con il piglio di sempre. Parla più di un’ora e non risparmia battute al partito dove «ci sono troppi cafoni arricchiti» o a chi gli contesta i rinvii a giudizio perché «non accetto lezioni di moralità». Fa le sue aperture che seppure «imposte» dai democratici nazionali e dalla partita difficile sul tavolo, fanno un certo effetto. Sulla necessità di lavorare a una coalizione «altrimenti la regione finisce nelle mani della camorra», ma soprattutto quando è «costretto» a ringraziare Bassolino, come dice puntando gli occhi sulla sala, «senza ipocrisia» per quello che ha fatto nelle istituzioni e perché ha ammesso le responsabilità del gruppo dirigente quando ha detto «non ce l’abbiamo fatta».
La platea è dalla sua, in maggioranza salernitana, ci sono i fanceschiniani con Berardo Impegno, i parlamentari moderati Teresa Armato e Maria Fortuna Incostante, il fido ex-segretario regionale Tino Iannuzzi, ma anche il filosofo Biagio De Giovanni e l’attuale segretario campano Enzo Amendola con cui poi avrà una riunione.
Ma De Luca in un discorso da campagna elettorale pieno di iperbole si presenta per quello che è, come dice lui stesso senza avere «alle spalle potentati economici, senza padroni, da uomo libero», quindi capace di parlare anche al centrodestra, come del resto ha sempre fatto. Definito spesso il Tosi (primo cittadino di Verona) della sinistra, il sindaco sceriffo, è secondo la classifica del Sole 24ore quello con il più alto indice di gradimento per la sua politica «del pugno duro». Ed è proprio nell’area di confine che punta a prendere voti, dopo aver lanciato la sfida a Bassolino, dopo essersi impuntato ad andare fino in fondo, minacciando anche di correre da solo se non avesse avuto l’appoggio del partito.
Per questo in mattinata le primarie sono state stroncate sul nascere. I bassoliniani si sono tirati indietro all’ultimo momento, alle 11 del mattino, con la conferenza stampa di Riccardo Marone che ha annunciato il suo ritiro, citando Giorgio Amendola e Pietro Ingrao. «Ingrao – ha detto Marone – si fece da parte quando si pose la questione del nome per la segreteria, adducendo come motivazione che avrebbe spaccato il partito». Ma Marone non è Ingrao e nemmeno Bassolino, che pure è stato suo discepolo, e ora si barcamena nelle trame di un dissidio interno. È un calice amaro quello che il presidente uscente deve bere, preferendo non andare alla conta. Una scelta che potrebbe sancire traumaticamente la fine dell’era bassoliniana oppure la sua rinascita, se De Luca dovesse fare la fine di Luigi Nicolais, quando senza l’appoggio del governatore, staccato di 20 punti in percentuale, ha consegnato nel giugno scorso la provincia di Napoli al Pdl di Cesaro e Cosentino.
Così nel Pd è stata una giornata campale dalle prime ore della mattina. Un rincorrersi di telefonate e di mediazioni che hanno fatto addirittura slittare l’orario di chiusura per la presentazione delle candidature, da mezzogiorno alle 14. Due ore in cui il frenetico tam tam Napoli-Roma avrebbe puntato ancora alla contrattazione nella speranza di trovare un altro candidato e salvare le primarie. Ma un agnello sacrificale non è stato trovato, eventuali outsider, come Corrado Gabriele, l’assessore al lavoro del Prc o Vincenzo Cuomo, il sindaco di Portici della cosiddetta area moderata Pd, per diverse ragioni si sono tirati indietro. Mentre venerdì per evitare intralci la presentazione dei nominativi era stata blindata, e il regolamento delle primarie modificato: per presentare la candidatura ci sarebbero volute 1.500 firme o solo tre, ma di parlamentari.
Altri coupe de theatre non sono previsti, ma qualcuno ancora crede a una mossa di Bassolino, che avrebbe fatto un passo indietro per far posto a un candidato di coalizione, forse Guido Trombetti. Il rettore della Federico II, che nelle scorse settimane avrebbe dovuto rappresentare un’altra Unione possibile, ma contro il quale si erano opposti proprio i deluchiani e i franceschiniani. Il comunicato firmato nel pomeriggio dalla direzione di Pd, dall’Api di Rutelli e dai Verdi lascia poco spazio ai dubbi sulla posizione della segreteria nazionale: «Affidiamo a Vincenzo De Luca il compito di rappresentare la coalizione come candidato presidente». De Luca si sarebbe imposto, puntando i piedi con lo stesso Bersani e minacciando di correre con una propria lista, lasciando al Pd l’ipoteca di avere sbarrato la strada all’unico candidato presentatosi per le consultazioni dal basso. Ora il testimone passa al primo cittadino di Salerno che non ha una strada in discesa. L’Udc ha praticamente siglato ieri l’alleanza con il Pdl in un incontro pubblico pro Caldoro, durante il quale Ciriaco De Mita si è seduto al fianco di Landolfi e Cosentino. I partiti Idv, Sel, Prc, socialisti e Federazione della sinistra hanno dichiarato improponibile l’appoggio alla sua candidatura e tacciano la decisione come una scelta «isolazionista» del Pd. Contro De Luca si sono scagliati Di Pietro e De Magistris, invocando la questione morale e i due rinvii a giudizio. Ma anche Ferrero («non rappresenta segno di discontinuità») e Fava («scelta perdente») che sanno bene quanto la politica dei manganelli contro migranti, prostitute e ambulanti non sia proponibile a sinistra. Facendo due conti, De Luca così non ce la fa. A maggior ragione se il blocco a sinistra presenta un nome in proprio, come ventilato ieri. E se c’è ancora chi invoca un candidato unitario che non spacchi la coalizione come il sindaco Rosa Russo Iervolino, le speranze sono davvero poche.
L’erede di Bassolino, senza primarie
Vincenzo De Luca è il candidato del Pd che in Campania sfiderà Stefano Caldoro. È l’uomo del giorno e in serata si presenta all’Hotel Vesuvio, sul lungomare di Napoli, con il piglio di sempre. Parla più di un’ora e non risparmia battute al partito dove «ci sono troppi cafoni arricchiti» o a chi gli contesta i rinvii a giudizio perché «non accetto lezioni di moralità». Fa le sue aperture che seppure «imposte» dai democratici nazionali e dalla partita difficile sul tavolo, fanno un certo effetto. Sulla necessità di lavorare a una coalizione «altrimenti la regione finisce nelle mani della camorra», ma soprattutto quando è «costretto» a ringraziare Bassolino, come dice puntando gli occhi sulla sala, «senza ipocrisia» per quello che ha fatto nelle istituzioni e perché ha ammesso le responsabilità del gruppo dirigente quando ha detto «non ce l’abbiamo fatta». La platea è dalla sua, in maggioranza salernitana, ci sono i fanceschiniani con Berardo Impegno, i parlamentari moderati Teresa Armato e Maria Fortuna Incostante, il fido ex-segretario regionale Tino Iannuzzi, ma anche il filosofo Biagio De Giovanni e l’attuale segretario campano Enzo Amendola con cui poi avrà una riunione.Ma De Luca in un discorso da campagna elettorale pieno di iperbole si presenta per quello che è, come dice lui stesso senza avere «alle spalle potentati economici, senza padroni, da uomo libero», quindi capace di parlare anche al centrodestra, come del resto ha sempre fatto. Definito spesso il Tosi (primo cittadino di Verona) della sinistra, il sindaco sceriffo, è secondo la classifica del Sole 24ore quello con il più alto indice di gradimento per la sua politica «del pugno duro». Ed è proprio nell’area di confine che punta a prendere voti, dopo aver lanciato la sfida a Bassolino, dopo essersi impuntato ad andare fino in fondo, minacciando anche di correre da solo se non avesse avuto l’appoggio del partito. Per questo in mattinata le primarie sono state stroncate sul nascere. I bassoliniani si sono tirati indietro all’ultimo momento, alle 11 del mattino, con la conferenza stampa di Riccardo Marone che ha annunciato il suo ritiro, citando Giorgio Amendola e Pietro Ingrao. «Ingrao – ha detto Marone – si fece da parte quando si pose la questione del nome per la segreteria, adducendo come motivazione che avrebbe spaccato il partito». Ma Marone non è Ingrao e nemmeno Bassolino, che pure è stato suo discepolo, e ora si barcamena nelle trame di un dissidio interno. È un calice amaro quello che il presidente uscente deve bere, preferendo non andare alla conta. Una scelta che potrebbe sancire traumaticamente la fine dell’era bassoliniana oppure la sua rinascita, se De Luca dovesse fare la fine di Luigi Nicolais, quando senza l’appoggio del governatore, staccato di 20 punti in percentuale, ha consegnato nel giugno scorso la provincia di Napoli al Pdl di Cesaro e Cosentino. Così nel Pd è stata una giornata campale dalle prime ore della mattina. Un rincorrersi di telefonate e di mediazioni che hanno fatto addirittura slittare l’orario di chiusura per la presentazione delle candidature, da mezzogiorno alle 14. Due ore in cui il frenetico tam tam Napoli-Roma avrebbe puntato ancora alla contrattazione nella speranza di trovare un altro candidato e salvare le primarie. Ma un agnello sacrificale non è stato trovato, eventuali outsider, come Corrado Gabriele, l’assessore al lavoro del Prc o Vincenzo Cuomo, il sindaco di Portici della cosiddetta area moderata Pd, per diverse ragioni si sono tirati indietro. Mentre venerdì per evitare intralci la presentazione dei nominativi era stata blindata, e il regolamento delle primarie modificato: per presentare la candidatura ci sarebbero volute 1.500 firme o solo tre, ma di parlamentari. Altri coupe de theatre non sono previsti, ma qualcuno ancora crede a una mossa di Bassolino, che avrebbe fatto un passo indietro per far posto a un candidato di coalizione, forse Guido Trombetti. Il rettore della Federico II, che nelle scorse settimane avrebbe dovuto rappresentare un’altra Unione possibile, ma contro il quale si erano opposti proprio i deluchiani e i franceschiniani. Il comunicato firmato nel pomeriggio dalla direzione di Pd, dall’Api di Rutelli e dai Verdi lascia poco spazio ai dubbi sulla posizione della segreteria nazionale: «Affidiamo a Vincenzo De Luca il compito di rappresentare la coalizione come candidato presidente». De Luca si sarebbe imposto, puntando i piedi con lo stesso Bersani e minacciando di correre con una propria lista, lasciando al Pd l’ipoteca di avere sbarrato la strada all’unico candidato presentatosi per le consultazioni dal basso. Ora il testimone passa al primo cittadino di Salerno che non ha una strada in discesa. L’Udc ha praticamente siglato ieri l’alleanza con il Pdl in un incontro pubblico pro Caldoro, durante il quale Ciriaco De Mita si è seduto al fianco di Landolfi e Cosentino. I partiti Idv, Sel, Prc, socialisti e Federazione della sinistra hanno dichiarato improponibile l’appoggio alla sua candidatura e tacciano la decisione come una scelta «isolazionista» del Pd. Contro De Luca si sono scagliati Di Pietro e De Magistris, invocando la questione morale e i due rinvii a giudizio. Ma anche Ferrero («non rappresenta segno di discontinuità») e Fava («scelta perdente») che sanno bene quanto la politica dei manganelli contro migranti, prostitute e ambulanti non sia proponibile a sinistra. Facendo due conti, De Luca così non ce la fa. A maggior ragione se il blocco a sinistra presenta un nome in proprio, come ventilato ieri. E se c’è ancora chi invoca un candidato unitario che non spacchi la coalizione come il sindaco Rosa Russo Iervolino, le speranze sono davvero poche.
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