Francesco Scacciati

Due economisti di grido, Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (d’ora in avanti Algi, per brevità) – l’uno professore a Harvard, l’altro alla Bocconi e al MIT hanno fatto seguire a un loro primo volumetto, “Goodbye Europa” (2006) – già definito dal pur moderato Tiziano Treu “provocatorio” – un successivo pamphlet “Il liberismo è di sinistra” (2007) che certamente lo è ancor di più.

Il titolo dice tutto. Ora, è certamente lecito sostenere che se governa la destra, se gli imprenditori hanno le mani libere e se il mercato impera incontrastato, si produce più ricchezza (chi scrive non ne è tanto sicuro, ma non è questo il punto). Si può anche sostenere che poi questa ricchezza, inizialmente nelle mani di pochi si diffonda necessariamente verso gli “strati inferiori” e impregni di sé l’intera società: chi scrive è certo del contrario, a meno che non ci siano sindacati forti e combattivi (il che fa venir meno almeno due dei tre presupposti). Purtuttavia anche questo può essere legittimamente sostenuto; infatti l’economia di destra non teorizza certo una società nella quale i padroni fanno soldi a palate mente gli altri vivono in miseria: essa sostiene che, rapidamente, il benessere si diffonde a tutti i componenti della società, seppure in modo non egualitario.

Invece non dovrebbe essere lecito cercare di ingannare le persone al fine di realizzare il vecchio trucco di utilizzare i voti di sinistra per fare una politica di destra. Algi va addirittura oltre sostenendo che le politiche di destra sono di sinistra.

“Il liberismo è di sinistra” è un concentrato di ragionamenti capziosi e ingannevoli, supportati spesso da ovvietà sulle quali tutti concordano, tipo: in Italia “la politica spesso degenera in una guerra tra lobby”; “più efficienza non significa meno equità, anzi”; “nell’impiego pubblico si fa carriera per anzianità e non per merito … e l’incentivazione della produttività viene assegnata solo sulla base della presenza”; “nella ricerca scientifica conta solo l’eccellenza e per ottenerla bisogna concentrare le risorse”; oAlitalia e Trenitalia offrono servizi inadeguati” oppure, nella Regione Calabria c’è il massimo numero di guardie forestali insieme al massimo numero di incendi, argomentando in base a questi casi abnormi che la presenza dello Stato in economia è sempre e comunque foriera di inefficienze, sprechi, e danni per la società, o ancora “le riforme sono di sinistra e la conservazione dei privilegi è di destra”, facendo poi implicitamente intendere che, nella sua accezione dei termini, ciò significa la conservazione dei diritti dei lavoratori è di destra, mentre le riforme che li abrogano sono di sinistra. Farmacisti, notai e taxisti sono citati ad esempio per estendere ai lavoratori e ai loro sindacati l’etichetta di privilegiati. O infine corredato da qualche riferimento (a sproposito) a Marx in una specie di patetica captatio benevolentiae, dei lettori che per caso avessero simpatie di quel genere.

Ma “Il liberismo è di sinistra” è anche un concentrato di errori, alcuni teorici, altri banali, a volte anche un po’ comici.

Cominciamo, brevemente, da questi ultimi. Algi sostiene che ben il 24% dei dipendenti pubblici non è impiegato nelle attività essenziali: nell’elenco che segue non ce n’è alcuna di quelle di competenza degli enti locali! Inoltre, nel sostenere che l’Italia è vecchia e nel contrapporre alla sua vetusta classe dirigente la gioventù di quella USA, attribuisce alla bella Hillary cinquant’anni, che, ahimé, ne ha però sessanta. Ma se volete attribuire questo sostegno indebito alle proprie tesi a un eccesso di galanteria, sappiate che Algi a pag. 32 scrive: “Come diceva Galileo, «maledetta la terra che ha ancora bisogno di eroi»”; peccato che la frase sia di Bertolt Brecht1 (probabilmente ritenuto un testimonial meno affidabile) che la fa dire al grande scienziato pisano nella sua opera teatrale Vita di Galileo. Dopo aver lungamente descritto il pessimo meccanismo del sistema pensionistico italiano (ed europeo, implicitamente) Algi descrive le maraviglie del sistema statunitense, dove “i fondi sono gestiti privatamente … e risolverebbero tutti i problemi di finanziamento pubblico delle pensioni e renderebbero ciascuno padrone dei propri risparmi pensionistici2. Purtroppo, “Il liberismo è di sinistra” è del luglio 2007, giusto un mese prima della catastrofe dei sub-prime, dei quali possiamo immaginare quanti sarebbero stati infilati nei fondi pensione nostrani (dopo i Parmalat e i titoli argentini, naturalmente). Sul Corriere della Sera il più esperto dei due, giusto un paio di giorni prima del disastro, avvertiva – severo come sempre – gli scriteriati governanti italiani di non recedere dalla riforma delle pensioni votata dal governo precedente a favore di un meccanismo più lassista sostenendo pressappoco: attenti che poi il deficit pubblico cresce, Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch ci declassano (loro sono americani, mica come noi, e non transigono) e poi i mercati ci puniscono. Peccato che le divinità del rating avessero appena attribuito le tre fatidiche “A” a società e fondi stracarichi di subprime, sull’orlo del crack3!

Ma abbandoniamo ora le facezie, e veniamo ad argomenti più di sostanza.

Algi adopera indifferentemente i termini “liberismo” e “concorrenza” – presentando quest’ultima nei termini nei quali è descritta la “concorrenza perfetta” – come se fossero sinonimi o, quantomeno, come se l’uno implicasse l’altra. Al contrario, essi sono incompatibili.. Quando Adam Smith, il padre del liberismo, descriveva i benefici effetti della concorrenza sui prezzi e sulla qualità dei prodotti (oltre che sulla crescita dell’economia) e dunque sul benessere generale, aveva di fronte a sé un’economia paleocapitalista: quando scriveva di “imprese” e “imprenditori”, li rappresentava come “il birraio”, “il fabbro”, “il falegname”; micro imprese cioè, totalmente soggette alle forze di mercato, costrette ad accettare il prezzo determinato dall’incontro di domanda e offerta. Ma il termine “concorrenza” (competition in inglese) implica che tali micro imprese siano in competizione tra loro e dunque c’è chi vince e c’è chi perde: le imprese perdenti sono spazzate via mentre le vincenti, cioè le più efficienti, ne conquistano le quote di mercato, si ingrandiscono, competono ancora tra di loro con ulteriori “eliminazioni” (come in un torneo sportivo) e ulteriori ingrandimenti. Ben presto le imprese vincenti saranno grandi abbastanza da non subire il prezzo ma da fissarlo al livello di una stabile massimizzazione del profitto, e addio concorrenza perfetta. Già David Ricardo, pochi decenni dopo Smith, intuiva l’ineluttabilità di questa evoluzione, mentre ancora poco tempo dopo la scuola marginalista individuava i punti di equilibrio (di massimizzazione del profitto, cioè) di “concorrenza monopolistica”, “oligopolio” e “monopolio”: delle forme di mercato, cioè, che realmente si andavano creando, e alle quali il liberismo inevitabilmente conduce. La concorrenza perfetta (ammesso che possa veramente esistere e che non sia una mera ipotesi teorica) ha in sé i germi della propria distruzione, a favore di forme di mercato dove prevalgono imprese grandi, forti, e, aspetto molto importante, in grado di realizzare economie di scala. Occorrerebbe una legislazione ferocemente anti-liberista per impedire a un mercato di libera concorrenza di evolvere verso le suddette forme di mercato: qualcosa di vagamente simile esiste, si tratta delle cosiddette anti-trust ma queste intervengono (e non sempre) in situazioni eclatanti, come nel caso della AT&T, scissa nel 1984 nelle 7 baby Bells, e, più di recente e in forma più blanda, nel caso di Microsoft. Ma per preservare la vera concorrenza, bisognerebbe che un organo centrale intervenisse a imporre lo smembramento anche di imprese con poche decine di addetti! Non a caso i moderni imprenditori adoperano spesso il termine “mercato” ma quasi mai il termine “concorrenza”: essi infatti mal la sopportano, in quanto schiaccia i profitti (fino ad azzerarli) e mette a rischio la loro posizione (gli imprenditori affermati amano assai poco il rischio, a differenza di quanto sostengono i paladini del liberismo).

Inoltre Algi ignora, o più probabilmente finge di ignorare, l’ampia letteratura relativa al fatto che grandi imprese, con un elevato grado di monopolio (price makers, per gli anglofoni) – se pure non selezionino certo il prezzo più basso possibile – possono però praticare prezzi più bassi di quelli che si avrebbero in concorrenza perfetta in quanto le economie di scala riducono in misura spesso eclatante i loro costi di produzione. L’esistenza delle economie di scala – come convincentemente spiegato da Martin Weitzman4 – impedisce ai disoccupati di presentarsi sul mercato come produttori individuali o anche di consorziarsi in piccole cooperative di produttori in quanto i costi di produzione di tali intraprese sarebbero assolutamente non competitivi con quelli delle grandi imprese. Le imprese, inoltre, non possono percepire la domanda potenziale di beni e servizi che i disoccupati effettuerebbero, qualora fossero invece occupati, e dunque – producendo quanto serve a soddisfare la domanda effettiva – non hanno alcun motivo per aumentare l’occupazione: i disoccupati rimangono tali, con buona pace di chi sostiene che un libero mercato del lavoro azzererebbe in breve tempo la disoccupazione involontaria5. Si tratta di una vecchia teoria sepolta dall’evidenza di milioni di disoccupati in disperata ricerca di lavoro negli anni trenta negli USA ma riesumata dai “nuovi” economisti classici per cantare le lodi del libero mercato e soprattutto per sostenere che chi è disoccupato lo è per sua libera scelta.

Ma se pensate che le difficoltà cui oggi vanno incontro i lavoratori siano dovute alle distorsioni del mercato del lavoro indotte dall’esistenza di grandi imprese e soprattutto dei sindacati (tutte le volte che Algi li cita lo fa sempre con accenti fortemente critici), sentite cosa diceva il regolamento di fabbrica di un’impresa tessile del Biellese nel 1900, quando non c’erano vincoli nel mercato del lavoro e salario e quantità di lavoro erano determinati dall’incontro di domanda e offerta di lavoro: “Le giornate lavorative dell’anno sono: tutte”; e poi “Le ore di lavoro giornaliere sono 14”. Happy days. Forse qualche laccio o lacciolo nel mercato del lavoro e un po’ di sindacato non apportano sempre e solo danni al benessere collettivo.

In conclusione, Algi argomenta, a seconda di ciò che meglio supporta le sue opinioni, a volte citando i vantaggi e le meraviglie della concorrenza, a volte quelle del mercato così com’è (e, specularmente, occultandone difetti e nocività). Ma quel che gli importa davvero sono la concorrenza sul mercato del lavoro e la privatizzazione selvaggia: infatti, a pag. 115 si legge “liberalizzare il mercato del lavoro è talmente importante che, se ci si riuscirà, gli altri sembreranno peccati veniali” e, poco prima, a pag. 106 “Insomma, il monopolista pubblico è più pericoloso di quello privato”. Ogni giorno se ne impara una nuova: quest’ultima, infatti, in tanti anni che mi occupo di economia, non la avevo ancora sentita (o, quantomeno, non la avevo ancora vista messa per iscritto).

In Italia, dal 1993 al 2006 la crescita del PIL reale è stata del 20% (tondo). Il numero di occupati dipendenti è aumentato (con buona pace di chi sostiene che sia una forma di attività in via di estinzione e che dunque è inutile occuparsene), da 14,78 a 16,21 milioni; il reddito distribuito al lavoro dipendente è passato da 855 miliardi di euro (a prezzi 2006) a 940: in altre parole il potere d’acquisto del salario “in busta” dei lavoratori dipendenti è rimasto invariato in 14 anni6. E quel 20% di crescita reale dove è finito? Tutto ai percettori di “altri redditi” (imprenditori, commercianti, artigiani, professionisti, percettori di rendite, etc.) il cui reddito pro capite è aumentato mediamente del 35%. Uno dei cavalli di battaglia di Algi è la perniciosa avversione al rischio degli italiani, e in particolare dei giovani: il 60% di loro preferisce infatti un lavoro sicuro anche se meno redditizio o con maggiori prospettive di reddito; peggio: addirittura la metà preferisce aumenti uguali per tutti o, massimo dell’ignominia, a favore di chi ne ha più bisogno! “Senza prendere dei rischi si ristagna e si declina” sentenzia Algi. Già questo è un postulato tutt’altro che universalmente riconosciuto. Edward Bird7empiricamente e analiticamente dimostra il contrario: se protetti da rischi eccessivi, gli individui sono più disposti a intraprendere e innovare. Ma anche se si ammettesse che la propensione al rischio renda più dinamica l’economia, come la mettiamo se la maggioranza è avversa al rischio8? Libera scelta? Democrazia? Pare che per i liberisti rampanti in economia siano concetti sconosciuti o, peggio, danosi. Non a caso i Chicago boys nel 1973 si precipitarono nel Cile del neo-dittatore Pinochet affermando che lì si erano create le condizioni ideali per realizzare il progetto di un’economia perfettamente liberista. Forse perché erano molto di sinistra.

Un altro tormentone presente ne “Il liberismo è di sinistra” è che i cittadini sono principalmente consumatori e contribuenti, non produttori; di conseguenza stanno tutti sulla stessa barca e hanno interessi comuni: pagare poche tasse e consumare il più possibile. Cito da pag. 49 “Per anni la sinistra è stata succube di un mito: l’alleanza dei produttori: il marxismo si focalizza sulla produzione, sul conflitto di classe all’interno del sistema produttivo; la domanda, cioè i consumatori, è pressoché irrilevante”. Che la domanda sia irrilevante per la sinistra, nei paesi capitalisti, è un’affermazione a dir poco bizzarra, dato che si può affermare che (con l’eccezione dell’audace tesi di Algi) l’impostazione neo-classica contraddistingue le politiche di destra mentre quella keynesiana – di cui la domanda aggregata è il fulcro – contraddistingue quelle di sinistra in quanto sostenitrice dell’intervento pubblico in economia. Ad Algi, come alla maggioranza degli economisti che la pensano come loro, sfugge però il piccolo particolare che, per essere consumatori (e anche contribuenti), occorre percepire un reddito e che tale reddito in tutti i paesi del mondo, è prodotto dal fattore lavoro, coadiuvato, ovviamente, dal fattore capitale sotto forma di beni materiali (strumentali) e immateriali (know how, etc.). E che pertanto se il lavoro è mal pagato o è perso, si è poco o nulla consumatori e contribuenti. Il reddito sul quale si pagano le imposte e grazie al quale si consuma non è una variabile indipendente! E’ il valore aggiunto (nel senso corretto del temine, e cioè valore dell’attività produttiva) che determina la ricchezza delle nazioni, e si ricorda che è il lavoro che in massima parte lo realizza, mentre il profitto ne è una parte, il più delle volte minoritaria9.

Ma se finora si è dimostrato quanto sia di destra, inequivocabilmente e in misura estrema, l’economia liberista, non è possibile sfuggire alla domanda: come deve essere allora un’economia di sinistra?

Occorre fare innanzitutto chiarire che il superamento del capitalismo non è all’ordine del giorno. Si tratta pertanto di definire quali devono essere le politiche della sinistra oggi, in campo economico, quando l’obiettivo è limitare i danni di un capitalismo sempre più selvaggio e aggressivo. Non è il caso di entrare nel dettaglio, ma le tre colonne portanti non possono che essere, a mio avviso, Lavoro, Ambiente, Solidarietà.

1) La difesa dei diritti acquisiti dei lavoratori nonché l’acquisizione di tali diritti da parte dei lavoratori che ne sono privati. Lo Statuto dei diritti dei lavoratori è stata una straordinaria conquista di civiltà che ha posto l’Italia all’avanguardia in questo campo: estenderlo a chi non se ne può giovare è una riforma di sinistra, svuotarlo o comunque ridurne gli effetti è una riforma di destra, reazionaria nel vero senso del termine. Vale la pena di distinguere tra liberisti e liberali. A differenza che con i liberisti, con i liberali (nel senso di liberals anglosassoni) possono essere combattute parecchie battaglie fianco a fianco (diritti civili, emancipazione, ambiente, etc.), ma sul ruolo del lavoro nella società e sul suo trattamento normativo rimangono divergenze insanabili. Michele Salvati (nel suo “Il partito democratico per la rivoluzione liberale”) nobilmente afferma “una sinistra riformista e liberale non può accettare questo dualismo del mercato del lavoro, inefficiente e ingiusto, generatore di precarietà e insicurezza per i giovani… il contratto d’ingesso dev’essere il contratto a tempo indeterminato…” Salvo poi concludere: “… e il datore di lavoro non deve essere frenato da vincoli legali e giudiziali che ne rendano la rescissione troppo difficile e onerosa”. Il che significa – essendo già previsto dalla legislazione vigente il licenziamento per giusta causa (che comprende lo scarso rendimento) e per documentata e necessaria ristrutturazione aziendale – dare mano libera ai datori di lavoro sui licenziamenti e cioè risolvere “l’inaccettabile dualismo” non garantendo i precari ma precarizzando i garantiti. Un contratto a tempo indeterminato senza la clausola della non licenziabilità (se non per motivi eccezionali) è una contraddizione in termini o, se preferite, una presa per i fondelli.

2) La difesa dell’ambiente dagli assalti di inquinatori e speculatori. Inoltre, va ricordato che nella difesa dell’ambiente il mercato necessariamente fallisce, ma può rientrare in gioco, proficuamente per tutti – producendo beni migliori, impianti di depurazione e dunque aumentando anche l’occupazione – solo dopo che la politica è intervenuta a regolamentare.

3) La solidarietà nei confronti dei più deboli, italiani o immigrati che siano, qui da noi come in quelle zone del mondo tagliate fuori dal treno dello sviluppo. Il welfare implica ingenti spese, ma è opinione diffusa, e non solo in Italia, che lo stato sociale e civiltà, se non sinonimi, quantomeno non possano prescindere l’uno dall’altra10. Non c’è qui spazio sufficiente per elencare tutti i campi di intervento dell’economia nel sociale: limitiamoci pertanto ad affermare che, per un governo anche solo un po’ di sinistra, ridurre il welfare è un controsenso.

“Troppe difese, ecco i conservatori!” griderebbe Algi, stracciandosi e vesti. Ma conservare quanto di buono è stato fatto dalla civiltà umana o esiste in natura è questione di buon senso, non di conservatorismo.

Detto ciò, la sinistra non può e non deve essere immobilista in un’economia capitalista: regole e limitazioni, sì; lacci, laccioli, elefantiasi burocratica e inefficienza vanno invece combattuti. Non bisogna creare condizioni sfavorevoli allo sviluppo delle imprese, perché questo significa meno occupazione e meno benessere, anche per i lavoratori: pensare di contrastare la realizzazione di profitti è una strategia perdente, se la caduta del capitalismo non è all’ordine del giorno, e in tempi brevi. Se qualcuno inventa il personal computer o il telefono cellulare, costruisce imprese e fabbriche che li producono e fa una barca di quattrini non va osteggiato ma incentivato, se crea occupazione, rispetta i diritti dei lavoratori, rispetta l’ambiente e se paga le imposte dovute. La sinistra deve invece combattere strenuamente, con tutti i mezzi, il capitalismo che da produttivo (anche di beni immateriali, ovviamente) diventa finanziario e si pasce e ingrassa razziando rendite comprando e rivendendo titoli o valuta spostandosi quotidianamente più volte da un paese all’altro senza creare un solo posto di lavoro, indifferente ai disastri che lascia al suo passare sulle economie reali. La Tobin tax11 era una buona idea, che va aggiornata e rilanciata come iniziativa internazionale realizzabile, in tempi brevi. Detto ciò, forme di flessibilità sono accettabili, purché regolate in maniera tale da non condurre a precariato e lavoro irregolare. Il tentativo di Algi e dei suoi colleghi di convincere giovani e meno giovani che perdere il lavoro per poi cercarne un altro è il bello della vita ha ormai ben pochi estimatori tra i lavoratori, anche perché troppo spesso perso il lavoro non se ne trova un altro, o, se lo si trova è più faticoso, più scomodo, meno gratificante, per nulla garantito e peggio pagato del precedente. E’ necessario creare sicurezza sia del posto sia sul posto di lavoro. Ciò implicherebbe un aumento dei costi di produzione? Certo, ma non peggiorerebbe la competitività delle imprese se tutte dovessero accollarseli. Ma in Asia non lo farebbero? Ecco un caso di un’iniziativa di politica economica di sinistra: non si importa dai paesi dove i lavoratori non hanno garanzie paragonabili alle nostre, in quanto ciò è configurabile come concorrenza sleale. Fantaeconomia? No, la Svizzera ha leggi di questo tipo, e non ha certo un governo marxista-leninista, né risulta che gli Svizzeri siano alla fame. E, per di più, ciò implicherebbe da un lato la difesa dei posti di lavoro in occidente: l’idea che l’occupazione nei paesi “a capitalismo maturo” possa spostarsi massicciamente dai settori tradizionali a quelli high-tech o di altissima qualità è assolutamente inattendibile: in Italia il settore industriale conta ancora oltre 8 milioni di addetti: saranno tutti assunti da Prada o dalla Ferrari? E neppure il passaggio in massa al settore terziario è attendibile: nessun paese di dimensioni medio-grandi può sopravvivere importando tutti i beni materiali che gli sono necessari e producendo solo servizi, che sono in massima parte non esportabili. Dunque protezionismo vecchio stampo per conservare i privilegi dell’occidente? Al contrario, si tratterebbe di un atto di solidarietà nei confronti dei lavoratori dei paesi dove essi sono maggiormente sfruttati, perché alla lunga i loro governi si accorgerebbero che converrebbe alleggerirne il giogo piuttosto che veder franare le esportazioni.

Ben vengano edilizia e grandi opere se migliorano le condizioni abitative e se rendono più efficienti i trasporti di persone e merci, ma con il vincolo del rispetto dell’ambiente e dei vincoli paesaggistici. Nella difesa dell’ambiente il mercato fallisce, ma può rientrare in gioco, proficuamente per tutti – producendo beni migliori, impianti di depurazione e dunque aumentando anche l’occupazione – solo dopo che il pubblico è intervenuto a regolamentare: il singolo non può acquistare individualmente aria e acqua pulite ma la stragrande maggioranza sarebbe ben disposta ad acquistarle al prezzo che la regolamentazione implicitamente comporta (per esempio, l’installazione di un depuratore implica l’aumento del costo unitario di produzione, e questo aumento si riflette sul prezzo non diversamente da un amento dell’IVA, ma in realtà si tratta del prezzo al quale i consumatori possono acquistare un bene desiderato – aria o acqua pulite – che il mercato non regolamentato non è in grado di offrire).

Insomma, lavoro, ambiente e solidarietà per porre innanzitutto un argine ai danni che il capitalismo infligge a quote sempre crescenti della popolazione e per creare spazio poi per un recupero del benessere collettivo.

A questo proposito va detto che c’è del nuovo a supporto di quanto sopra sostenuto. E’ ormai molto vasta la letteratura che tratta di “economia della felicità”12. Anche se sembra avere un ruolo decisivo “il carattere” di ciascun individuo nel definire il proprio grado di felicità e cioè un’inclinazione genetica all’ottimismo piuttosto che non alla melanconia, purtuttavia è stato evidenziato un certo numero di fattori che mostrano una correlazione con le dichiarazioni degli individui sul proprio grado di felicità o di soddisfazione della propria vita. Ebbene, sia il livello del reddito pro-capite sia la crescita economica perdono una significativa correlazione con la felicità dichiarata dagli intervistati (paradosso di Easterlin13) non appena superato quel livello che consente di mettere insieme il pranzo con la cena e poco più (circa 10.000 dollari l’anno, cioè un terzo del reddito pro-capite italiano).

Più fortemente correlati con il grado di soddisfazione risulta invece essere la propria posizione relativa rispetto alla scala dei redditi della collettività di cui ci si sente parte, mentre disoccupazione e insicurezza economica lo sono fortemente in maniera inversa. La salute risulta (come si può facilmente intuire) importante, come lo è vivere in una casa accogliente, mentre l’istruzione in sé non sembra essere correlata in maniera significativa al grado di felicità: lo sono però alcuni fattori ad essa collegati. Molto importante per l’argomento qui dibattuto è la correlazione forte con il grado di soddisfazione dei cosiddetti “beni relazionali” e cioè quelli che hanno a che fare con le relazioni con altre persone, sia in particolare (coniuge, partner, figli, amici, parenti, vicini di casa) sia in generale (“gli altri”, “la gente”…). E’ dunque possibilevalutare su quali fattori di felicità, e di infelicità, possono incidere i governi, da quello centrale a quello regionale a quello locale. E non sono pochi: incentivare la crescita economica, ma indirizzata all’abbattimento della disoccupazione, imporre un carico fiscale elevato su chi ha rediti molto alti al fine da un lato di ridurre le disparità – che, come abbiamo visto, creano insoddisfazione e frustrazione – e dall’altro di finanziare la produzione e l’erogazione di quei beni e servizi pubblici che migliorano la qualità della vita della parte di gran lunga maggioritaria della popolazione e che ne incentivano il senso, e il piacere, di sentirsi parte attiva, integrante e importante di una collettività.

PS. Queste pagine sono state scritte prima delle stragi sul lavoro di Torino e Molfetta. Il tono a volte scherzoso mal si addice ad argomenti che troppo spesso implicano eventi che suscitano sdegno e orrore. Sentimenti questi che non possono non estendersi a coloro che definiscono comodi profittatori di rendite di posizione i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, operai compresi, per i quali auspicano minori garanzie. “Le sanzioni saranno calibrate e proporzionate alle violazioni” ha detto il ministro Damiano, che, notoriamente, non è proprio un arruffapopoli. “L’aggravamento delle sanzioni è inaccettabile” ha replicato il direttore generale di Confindustria, Maurizio Beretta

1 O anche, nella versione più nota, “Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi”.

2 I fondi pensione USA sono però assicurati a livello federale: il Pension Benefit Guarantee Corp. Quindi, se falliscono, alla fine dei conti, paga il contribuente. Ciò significa che sono meno liberisti e più di buon senso di quanto non si vada dicendo. Il fatto però che agiscano liberamente sul mercato può creare problemi ben più grossi di quelli che affliggono un sistema pubblico: ora il “buco” è di 450 miliardi di dollari.

3 Ma forse le tre A stavano per “Associazione Acchiappa Allocchi”.

4 Weitzman, M., “Increasing returns and the foundations of unemployment theory”, The Economic Journal, n. 92, 1982.

5 Come affermava Robert Lucas, caposcuola della nuova macroeconomia classica: “Il concetto di disoccupazione involontaria è molto difficile da definire, perché la cosa da misurare non esiste”. Algi si dimostra in più di un passaggio pienamente convinto di ciò: “chi dovesse perdere il lavoro e rimanere temporaneamente disoccupato … troverebbe altre (imprese) pronte ad assumerlo.

6 Per la precisione ha fatto segnare un +0,2%. Nell’ambito dell’insieme dei lavoratori dipendenti, i dirigenti e i quadri hanno però visto migliorare sensibilmente la loro posizione; c’è stato un certo miglioramento per gli statali, gli operai hanno fatto circa pari, mentre gli impiegati hanno visto diminuire sensibilmente il loro potere di acquisto. Il ruolo dell’imposizione fiscale nella mancata crescita dei redditi in busta dei lavoratori dipendenti non è particolarmente significativo, in quanto il carico fiscale (gettito tributario/PIL) nell’ultimo quindicennio è rimasto pressoché invariato.

7 Bird, E. J. (2001), “Does the welfare state induce risk-taking?” Journal of public economics, 80.

8 Del resto, che la maggioranza delle persone sia avversa al rischio è cosa nota a tutti coloro che si occupano di economia, psicologia, sociologia e anche politologia: Jean-Jacques Rousseau dimostra come sia proprio l’avversione al rischio che, fin dai tempi più remoti, fa abbandonare lo stato di natura e fa sorgere il contratto sociale, e cioè lo Stato.

9 Facciamo un esempio. In un paese di 38 milioni di contribuenti c’è un’impresa con 250 mila dipendenti che realizza un valore aggiunto di 10 miliardi di euro, con un profitto negativo (cioè una perdita) di 38 milioni di euro e un’altra impresa con 25 dipendenti che realizza un valore aggiunto 10 milioni di euro con un attivo di 38 mila euro. Si può certo affermare che la seconda è “più sana” della prima, ma Algi vorrebbe far fallire la prima, gettando sul lastrico 250 mila famiglie, quando basterebbe una sovraimposta di un euro a testa l’anno (!) per ogni contribuente di quel paese per evitare tale catastrofe occupazionale. Il danno derivante si ripercuoterebbe poi, sotto forma di calo della domanda aggregata, anche sugli altri abitanti, cosicché, per non pagare un euro all’anno in più di imposte, rischierebbero di perderne molti di più.

10 La protezione dei componenti più deboli della collettività da parte dei più forti è presente nei gruppi umani fin dai tempi più remoti. L’economia evoluzionista sostiene che i comportamenti cooperativi ed altruistici sono stati selezionati dall’evoluzione al fine della sopravvivenza dei gruppi di appartenenza (e non solo tra gli umani).

11 La Tobin tax prevede di tassare con una piccola aliquota (0,1%) ogni spostamento di capitale finanziario da un paese all’altro. Se il capitale si sposta per realizzare un investimento duraturo e produttivo, la percentuale da pagare rende la tassa praticamente irrilevante. Se invece il capitale si sposa costantemente, a puro scopo speculativo, l’importo da pagare diventa disincentivante, in quanto dato dalla somma dovuta ad ogni passaggio. La Tobin tax fu proposta dal premio Nobel James Tobin nel lontano 1972: da allora a oggi l’utilità di una sua adozione è aumentata in misura esponenziale.

12 Per rassegne, si vedano, tra gli altri, Carol Graham “The Economics of Happiness” Economic Studies Program, The Brookings Institution, e E. Gerelli (2007) “Economia della felicità e (soprattutto) dintorni”, Università Mediterranea, WP.

13 Easterlin, R., (1974) “Does Economic Growth Improve the Human Lot?” in Paul A. David and Melvin W. Reder, eds., Nations and Households in Economic Growth: Essays in Honor of Moses Abramovitz, New York: Academic Press, Inc.